Fare business in India: serve un approccio dal basso

In by Gabriele Battaglia

In Italia il mito di un’India a misura di businessman occidentale si ostina inspiegabilmente a sopravvivere, nonostante decine e decine di piccoli e medi imprenditori nostrani negli ultimi anni abbiano provato a seguire il flusso dello spostamento di capitale, inseguendo l’El Dorado di facili e fulminei guadagni promessi da una certa narrazione del boom economico indiano. Ma alla prova della realtà, entrare in contatto con un ambiente commerciale lontano anni luce dai nostri usi e costumi ha smascherato tutti i limiti – in particolare nostri – di un rapporto d’affari concepito, in India, più come corteggiamento reciproco che come calcolo aritmetico da concludersi con una stretta di mano.

«Le difficoltà più grosse sono state la lingua (lingua locale, non solo l’inglese, ndr), il sistema di tassazione e le varie leggi da seguire: è fondamentale avere una persona locale, di fiducia, che ti aiuti». Gianluigi “Gigio” Mentasti ha vissuto stabilmente a New Delhi dal 2005 al 2009, portando il suo business calzaturiero in uno dei mercati più promettenti della Terra, l’Incredible India.

La crisi economica del 2008, che si è abbattuta anche sul subcontinente indiano, l’ha costretto a tornare in Italia, ma non senza un bagaglio tecnico-tattico imparato sul campo.

«Il rapporto umano con gli indiani è stato molto buono, alcuni sono invidiosi della tua condizione, ma in generale li ho trovati tutti molto rispettosi ed estremamente gentili, dagli impiegati in fabbrica fino agli imprenditori milionari. Un fornitore di Chandigarh, quando ci siamo incontrati, ha insistito perché rimanessi a dormire a casa sua, che conoscessi la sua famiglia; un atteggiamento, avrei scoperto poi, assolutamente comune in India e al quale noi italiani non siamo abituati. Chi viene qui per fare business magari per una settimana, davanti a una richiesta del genere dice “ma perché? In tutto quel tempo che perdo posso fare altre duemila cose”. Sbagliando: rapporti umani di quel tipo sono fondamentali per fare business lì».

A sottolineare il cambio di paradigma imposto dagli usi locali, a distanza di alcuni anni Mentasti rileva come, per gli indiani, un potenziale partner d’affari che decida di trasferirsi per lunghi periodi in India guadagni enormemente in termini di affabilità e affidabilità rispetto a un concorrente più “mordi e fuggi”: curare il rapporto personal-commerciale in loco, di persona e a scadenze regolari, rafforza nel socio d’affari indiano la convinzione di aver a che fare con una persona seriamente intenzionata a fare business, disposta a portare la frequentazione da un piano di reciproco profitto a uno più “nobile” di confidenza umana.

Non è tutto rose e fiori, ovviamente, tanto che lo stesso Mentasti ha scoperto uno dei suoi collaboratori indiani “fidati” «con le mani nel cassetto», nella dimostrazione plastica dei rischi inevitabili di concepire gli affari come attività più antropologica che matematica, con tutte le insidie del caso. Per assurdo proprio noi italiani, noti nel mondo per la nostra cerimoniosità, in ambito lavorativo indiano lamentiamo un eccesso di coinvolgimento emotivo molto poco pragmatico, col quale evidentemente non sappiamo come rapportarci.

Ci sfugge, colpevolmente, l’importanza della creazione di un rapporto addirittura amicale, prima che commerciale, e la frustrazione dei tempi dilatati per apprezzare i risultati (assieme al caos burocratico e agli indubbi ostacoli infrastrutturali indiani) tende a farci gettare la spugna. Lo dicono i numeri esigui che misurano l’interscambio tra India e Italia, secondo il portale governativo infomercatiesteri.it nel 2013 fermo a 8,5 miliardi di euro, intorno all’1 per cento dei rispettivi comparti commerciali nazionali: noccioline, considerando ad esempio che l’interscambio tra Cina e Italia, nello stesso periodo, superava i 33 miliardi di euro.

L’India rimane comunque un mercato pieno di opportunità e in Italia il gap culturale delle regole non scritte del business in India ha portato all’apertura di un master presso l’università Ca’ Foscari di Venezia. Si chiama Italian Global Approach to Management in India (Igami) ed è animato dall’attività didattica di Marco Zolli, indologo e frequentatore del subcontinente da 10 anni.

«Noi italiani mostriamo un’ignoranza ostinata in alcuni aspetti, un disinteresse nel conoscere paesi diversi. E in India il tutto si complica, considerando le differenze profonde tra i due paesi e i preconcetti coi quali noi partiamo dall’Italia, a partire dal mito che “tanto in India parlano tutti inglese”. Non è vero e, quando capita, spesso non basta».
Gli studenti del master, visti all’opera a Varanasi, vengono lanciati senza paracadute nella realtà indiana. Devono imparare a cavarsela, sapersi muovere sia nella giungla urbana che in contesti pubblici – come comportarsi a casa di altri, come bere il té, come mangiare, come cucinare – il tutto costruito sopra alla precondizione della lingua hindi, fondamentale sia per creare quel legame di fiducia pre-business sia per uscire dagli impasse della quotidianità come pagare le bollette, ordinare il boccione dell’acqua, fare la spesa al mercato.

«Siamo convinti, anche secondo l’esperienza di imprenditori italiani che fanno business qui in India da anni – spiega Zolli – che sia impossibile operare nel paese senza una conoscenza del territorio e del contesto, sia culturale che sociale. Un approccio “dal basso” alle diversità delle varie aree del subcontinente non solo è consigliato, è proprio imprescindibile».
 

[Scritto per East – rivista di geopolitica; foto credit: cnn.com]