Almeno 233 attivisti per i diritti umani sono stati colpiti dall’ultimo giro di vite delle autorità cinesi, con diversi studi legali presi particolarmente di mira. Nella Cina dell’”uomo forte” Xi Jinping, la legge serve a governare, non a reclamare diritti che sfidano il potere. I media di stato hanno riportato che il responsabile di uno studio legale avrebbe confessato mentre altri detenuti avrebbero “espresso rimorso”. L’impressione è che i giochi siano già fatti e che il verdetto di colpevolezza sia già stato emesso, almeno per via giornalistica. Sono oltre cento gli attivisti per la difesa dei diritti umani colpiti dall’ultimo giro di vite messo in atto dalle autorità cinesi. Con i semplici militanti, sono stati presi di mira studi legali un po’ in tutte le province del Paese. Tra questi una nota law firm di Pechino, la Fengrui, i cui membri sono stati arrestati per “aver violato gravemente la legge”, secondo il Quotidiano del Popolo, che li definisce senza mezzi termini “banda criminale”. Si tratta di sei legali: Zhou Shifeng, Liu Sixin, Wang Quanzhang, Huang Liqun, Wang Yu e Bao Longjun.
Non sono ancora chiari i contorni dell’intera vicenda – In Cina, una persona può essere detenuta per 37 ore prima che venga formalmente accusata – ma il giornale del Partito parla di “incitamento alla sovversione”, “creazione di disturbo”, come imputazioni ricorrenti. Gli avvocati di Pechino sono per esempio accusati di avere collaborato con Wu Gan, un attivista già arrestato nei giorni precedenti, per avere organizzato una protesta pubblica quando nel maggio scorso un poliziotto uccise un uomo disarmato in una stazione nella provincia settentrionale dell’Heilongjiang. Lo studio Fengrui di Pechino viene definito una “piattaforma” per richiamare l’attenzione su casi delicati, disturbando così l’ordine sociale.
Gli avvocati per i diritti umani sono nel mirino da tempo. Nella Cina dell’”uomo forte” Xi Jinping, l’introduzione graduale di uno Stato di diritto “secondo caratteristiche cinesi”, fa il paio con la repressione sempre più accentuata della società civile. Il messaggio appare chiaro: la legge serve a governare, serve all’ordine, non a reclamare diritti che sfidano il potere dello Stato.
Secondo Eva Pils, esperta di leggi cinesi e diritti umani al King’s College di Londra, L’inizio del contemporaneo movimento dei diritti umani cinese va fa fatto risalire al caso di Sun Zhigang, un lavoratore migrante che nel 2003 morì in circostanze oscure mentre si trovava nelle mani della polizia. Fu un giornale investigativo, il Nanfang Dushibao (“quotidiano metropolitano del sud”) a rivelare il caso proprio nei giorni in cui andava installandosi la nuova leadership di Hu Jintao e Wen Jiabao. La vicenda non venne occultata e questo lasciò ben sperare.
Sull’onda di questa prima apertura, nacquero quindi gruppi di sostegno legale travestiti da Ong, come la famosa Gongmeng (Open Constitution Initiative), “un gruppo di eroi legali”, come li definisce Pils. “Si trattava di poche persone che raccoglievano testimonianze su casi di abusi e torture”. Fu comunque piuttosto facile reprimere questi pionieri, lasciandoli semplicemente cuocere nel loro brodo o magari additandoli come “non professionali” attraverso la vox populi. “Furono così marginalizzati, attaccati anche in Rete e lasciati soli a livello internazionale”, spiega la studiosa tedesca. Gongmeng fu poi chiusa d’ufficio nel 2009.
La fase successiva comincia un paio di anni dopo quando l’impegno dei cosiddetti avvocati per i diritti civili (weiquan), trasforma il patrocinio legale in una vera e propria pratica di resistenza. “La strategia consisteva nell’insistenza su regole violate quotidianamente e su tecniche mediatiche per darsi una visibilità crescente”, spiega Pils. Si cercava così di trasferire l’azione dall’interno delle corti, all’esterno, facendo leva proprio su quella opinione pubblica che il governo – alla ricerca di consenso – teneva sempre più in considerazione.
È la cosiddetta advocacy beyond the courtroom, secondo la narrativa anglosassone, basata su un’alleanza tra gli avvocati, i loro clienti e semplici simpatizzanti, che si traduce concretamente in donazioni, seminari, workshop, mobilitazioni attraverso i social media e “visual advocacy”, cioè lo sfruttamento sapiente dell’effetto mediatico.
Il caso di uno dei più noti avvocati weiquan, Tang Jitian, è esemplificativo: firmatario della scottante Charta 08, più volte arrestato in relazione ai casi di cui si occupa (Falun Gong, requisizioni di terre, malati di Aids, etc), nel 2014 si reca a visitare un “centro di rieducazione” in Heilongjiang, ne denuncia pubblicamente gli abusi, viene arrestato, detenuto per due settimane, picchiato, torturato. Il tutto viene ampiamente pubblicizzato, come strumento di lotta politica.
Dal 2010 nasce insomma un movimento fluido, informe, non strutturato, che combina “difendere i diritti” (weiquan) e “presentare rimostranze” (shenyuan). Si saldano così le esigenze concrete della gente comune alle più politiche rivendicazioni per la democrazia, processo che troverà una sintesi nel “movimento dei nuovi cittadini” dell’avvocato Xu Zhiyong (nel quale confluiscono diversi membri della vecchi Gongmeng), che raggiunge il culmine nel biennio 2012-13. Con lo slogan “diventare cittadini” siamo già a un livello politico: le nuove alleanze vanno al di là della semplice difesa legale. La gente che il movimento porta nelle strade chiede ai funzionari di rendere pubblici i propri patrimoni.
È troppo: Xu viene arrestato nel luglio 2013 e condannato a quattro anni nel gennaio 2014 per “avere riunito una folla e danneggiato spazi pubblici”, al culmine di una repressione nei confronti dell’intero movimento che si snoda tra 2013 e 2014.
A questo punto – osserva Eva Pils – è chiaro che si è esaurita la prospettiva di riforme mentre – paradossi cinesi – con l’innesto dello “Stato di diritto” sulla permanente lotta anticorruzione, sono legalizzate pratiche repressive. È questo il caso dello shuanggui. il procedimento che colpisce i membri del Partito fuori da ogni procedura legale: si presentano in un luogo, un dato giorno a una data ora, scompaiono, ricompaiono con la confessione firmata di qualche crimine.
Nella nuova era di Xi Jinping, l’ideologia di Stato si sposta dalla graduale apertura che sembrava intravedersi con l’accoppiata Hu-Wen a una concentrazione del potere. La repressione, spesso una semplice “impossibilità di vivere” a livello amministrativo, colpisce gruppi finora lasciati in pace, come le Ong (con la nuova legge sulle Ong straniere in discussione ora). La recentissima normativa sulla sicurezza nazionale, invece, fa diventare praticamente ogni ambito della vita sociale materia di “sicurezza” e concettualmente si enfatizza la distinzione amico-nemico: o con me o contro di me. Paradossalmente, viene quindi colpito soprattutto chi intende scendere a patti con il sistema. È questo per esempio il caso dell’intellettuale uiguro Ilham Tohti, figura di mediazione, condannato all’ergastolo per “separatismo” lo scorso settembre.
Cosa ci riserva il futuro? Difficile dirlo, ma “l’effetto del pugno di ferro – conclude Eva Pils – può essere un’ulteriore politicizzazione e radicalizzazione del movimento per i diritti umani”.