Perché Jia Zhangke piace più in Occidente che in Cina? E’ questa la domanda a cui cerca di dare una risposta il magazine Fenghuang Zhoukan in un lungo articolo che pubblichiamo in tre puntate. Ne esce una biografia critica del grande regista, che racconta il proletariato cinese senza piacere al proletariato cinese. Ma fa strage di cuori tra gli evoluti intellettuali occidentali Nel 2010, durante l’anteprima di “Chongqing Blues” di Wang Xiaoshuai al Moma di Pechino, Jia ha diffuso il saggio “Non penso che possiate indovinare il nostro futuro” in cui spiegava, non senza un certo orgoglio, la propria idea di “sesta generazione” [di registi, ndr]: una sfid.a al potere, al mercato e a se stessi. Queste poche, semplici parole andavano dritte al punto: in un attimo avevano individuato l’identità a lungo ricercata e finalmente condivisa da tutto il gruppo. Non importa quale strada ognuno avesse scelto, tutti avrebbero potuto riconoscersi in quelle parole.
Da quel momento le aspettative nei confronti dei film della sesta generazione non potevano più distaccarsi dall’idea di rompere con i modelli commerciali esistenti. Ogni volta che una nuova pellicola usciva sul grande schermo si proponevano discussioni e iniziative a sostegno del cinema d’arte e delle istituzioni cinematografiche (la proiezione di “Blind Massage” di Lou Ye lo scorso anno e di “Red Amnesia” di Wang Xiaoshuai quest’anno ha scatenato dibattiti dai contenuti accesi). Le aspettative dei media e dei circoli cinematografici internazionali, invece, si tingevano di sfumature più politiche: dalla critica alla censura cinematografica al ritratto del lato oscuro della Cina di oggi (un esempio sono la lettera aperta di Lou Ye alla vigilia della proiezione di “Mistery” , così come il film “A touch of Sin” di Jia Zhangke).
All’interno del suo gruppo, Jia Zhangke è senza dubbio il regista che presenta il maggior numero di argomenti politici. Esplora i tabù sociali in maniera differente da Zhang Yuan; racconta passioni d’amore senza assomigliare a Lou Ye e sprofonda nelle memorie del passato senza confondersi con Wang Xiaoshuai. Quest’ultimo, infatti, presenta storie intrise di emozioni individuali e dal finale prestabilito. Jia, al contrario, è completamente immerso nel presente.
Da quando ha sconvolto tutti con il suo primo lungometraggio “The Pickpocket” [Xiao Wu], Jia s ha occupato una delicata zona di interdizione. Questo film, prodotto con mezzi di fortuna come sua tesi di laurea, ricorreva in parte allo stile freddo e distaccato del documentario per mostrare una nuova tecnica di elaborazione spazio-temporale. Un espediente che gli ha permesso di ritrarre il villaggio in cui si muove il borseggiatore del film come un luogo di intensi cambiamenti e rigide fossilizzazioni. Jia non andava a caccia della novità, né le ignorava: puntava direttamente il suo obiettivo su una strada qualunque e registrava lo scontro e la sovrapposizione di nuove e vecchie concezioni nella Cina delle riforme.
“Platform” aveva senza dubbio una visione più ambiziosa, quasi paragonabile a un dramma dinastico ambientato negli anni Ottanta. Con una piccola troupe locale è riuscito a scandagliare un’intera generazione. “Unknown pleasures” ne è in un certo senso la continuazione. Il film documenta come i giovani degli anni Novanta fossero frastornati e perduti a causa della sovrapposizione dei nuovi e vecchi sistemi di valori.
Lo stile realista e un po’ grezzo della cosiddetta “Trilogia del Villaggio Natale” ha offerto al mondo uno sguardo autentico sulla Cina contemporanea, quella Cina delle riforme che era stata a lungo assente dagli schermi cinematografici.
I festival di cinema internazionali avevano finalmente scoperto – fra l’estetica popolare dei film della quinta generazione e i sempre più in voga film in costume – un nuovo stile di cinema cinese. Ed è così che Jia Zhangke partendo dal festival di Nantes è approdato prima a Venezia e poi a Cannes.
Nel 2006 con “Still Life” Jia Zhangke è riuscito a sublimare l’estetica dei suoi lavori accostando occasionali flash surreali alla sua poetica che in passato non era ancora così evidente. “Still Life” è lo specchio di un’epoca. Argomenti scottanti come le demolizioni forzate, le miniere di carbone e il traffico di esseri umani catturano l’attenzione dello spettatore. Jia Zhangke narra la vita delle classi sociali più povere. Ci sono bettole con tavoli e sedie disposti in maniera disordinata e testiere di letti incorniciate da thermos di tè, bottiglie di alcol e sigarette. Questa è l’anima dei suoi film. “Still Life”, che gli è valso un Leone d’oro, ha canonizzato lo stile della sesta generazione. Gli onori più alti dei tre maggiori festival internazionali del cinema finalmente venivano di nuovo conferiti a un regista cinese.
In questi film Jia Zhangke non mostra sfumature politiche. Cerca solo di documentare le quotidiane lotte delle persone comuni. Anche se le situazioni drammatiche sono una costante dei suoi film, Jia non mira a una vera e propria critica sociale. Ma la censura continuava a rimproverargli di aver seguito le orme della quinta generazione mostrando volgarità, indirizzandosi al mercato del cinema internazionale e cercando l’acclamazione del pubblico strumentalizzando senza scrupolo le pene e i dolori dei suoi connazionali.
A queste accuse, Jia Zhangke ha sempre risposto con un sorriso. Ciò che lo preoccupa è altro: come far arrivare i propri film al pubblico che più gli sta a cuore.
“Still Life” in gara a Venezia gli aveva dato un’occasione senza precedenti per liberarsi dalla zona di interdizione a cui era stato relegato. Ma in quel momento aveva anche un avversario eccezionale: “La città proibita” di Zhang Yimou. Un vero e proprio duello fra la quinta e la sesta generazione. Il risultato era scontato: “Still Life” ha incassato 300mila rmb. Un incasso minimo rispetto ai 300 milioni de “La città proibita”.
Jia Zhangke ha così dovuto affrontare un’altra situazione spinosa. Il suo film affrontava il tema della vita del proletariato cinese contemporaneo, ma quello stesso proletariato non mostrava il minimo interesse per il suo film. Negli utimi dieci anni, la situazione è rimasta pressoché immutata. Il nome di Jia Zhangke appare di frequente sui media e su internet, ma non gode di particolare fortuna. Nella migliore delle ipotesi si sa che è un regista giovane, ma pochi ne hanno visto un’opera. Inserendo il nome di Jia Zhangke su[l motore di ricerca] Baidu, i risultati sono pari quelli del solo film “La città proibita”. Un paradosso se si pensa che Jia Zhangke era famoso all’estero tanto da essere diventato il beniamino del cinema francese e di altri mercati europei.
Se nel 2006 “Still Life” veniva pesantemente battuto da “La città proibita” in Cina, all’estero veniva distribuito in più di 60 paesi. In Francia aveva addirittura sorpassato il film campione di incassi. Lo stesso Jia Zhangke aveva dichiarato che all’estero il suo film aveva superato “La città proibita” (innegabile, anche perché “La città proibita” non era ancora stato distribuito ).
1.continua
[Il pezzo è anche su Caratteri cinesi. Traduzione di Giulia Zennaro]*Fenghuang Zhoukan (La fenice – Phoenix Weekly) è il magazine della Phoenix TV di Hongkong. Ha ottenuto l’approvazione del governo cinese per la distribuzione nella Cina continentale, affronta temi di politica interna, oltre ad essere attenta agli andamenti economici del nuovo secolo. Esce tre volte al mese, il 5, il 15 e il 25 di ogni mese.