La riforma elettorale voluta da Pechino e dall’establishment locale è stata bocciata, ma in futuro si voterà in base a un modello ancora meno democratico, mentre il movimento non sembrerebbe in grado di prendere l’iniziativa e la città è spaccata su linee sociali, generazionali, etniche, culturali. Il giorno dopo è peno di interrogativi e privo di certezze. Il Consiglio Legislativo di Hong Kong ha bocciato la proposta di riforma elettorale che aveva diviso l’opinione pubblica nell’ex colonia britannica e innescato il movimento Occupy dello scorso autunno. Quindi, dove non erano riuscite quelle agitazioni è apparentemente riuscita l’opposizione parlamentare.
Apparentemente.
La riforma avrebbe introdotto il suffragio universale nel 2017 per le elezioni del chief executive – cioè il governatore – e poi per il parlamentino locale nel 2020. Era avversata dallo schieramento pan-democratico nel Consiglio legislativo e dal più vasto movimento Occupy nella città, perché avrebbe dato, sì, il voto ai circa 5 milioni di elettori locali; ma prevedeva però anche che i candidati a chief executive sarebbero stati circoscritti a due o tre, filtrati da un comitato elettorale di 1200 notabili. Non era quindi per gli oppositori “democrazia genuina”.
Quando nell’agosto dell’anno scorso l’assemblea nazionale del popolo di Pechino, che aveva l’ultima voce in capitolo, fece pervenire a Hong Kong la proposta di riforma, il già annunciato movimento Occupy si manifestò in tutta la sua potenza. Furono soprattutto gli studenti a trascinare in piazza centinaia di migliaia di persone, sottraendolo di fatto ai tre padri fondatori – Benny Tai, Chan Kin-man e il reverendo Chu Yiu-ming – espressione di un ceto medio avanti con gli anni e moderato, non più riconosciuto come rappresentativo dallo zoccolo duro dei manifestanti.
Il movimento rivelava infatti da subito un carattere soprattutto generazionale: a Hong Kong, oggi, sono soprattutto i giovani che soffrono di prezzi immobiliari inaccessibili, svalutazione della propria professionalità di fronte al dumping sociale proveniente dalla Cina continentale e salari inadeguati alla prova dell’inflazione. Una più ampia democrazia elettorale appariva quindi a molti di loro come lo strumento per far sentire la propria voce contro un blocco sociale di grandi immobiliaristi e interessi finanziari che di fatto governano Hong Kong con il beneplacito di Pechino.
Occupy però non è riuscito a passare dai blocchi stradali alla dimensione più politica, né ha saputo farsi carico di esplicite rivendicazioni sociali, e quindi si è esaurito verso fine anno. Da allora, abbiamo assistito alla messa in scena delle divisioni interne, già visibili durante sit-in e proteste: da un lato una componente più sociale, democratica; dall’altro gli elementi cosiddetti nativisti, xenofobi, che molto semplicemente rivendicano una presunta identità etnica non cinese e si oppongono alla Cina in quanto Cina. I leghisti di Hong Kong.
Momento clou delle divisioni, lo scorso 4 giugno, la tradizionale veglia con candele per ricordare piazza Tian’anmen. La Federazione degli Studenti, anima di Occupy che si era già spaccata a inizio anno, ha scelto di non partecipare alla commemorazione che aveva come slogan “costruire una Cina democratica” e ne ha tenuta una parallela in università. La spiegazione: la democrazia la vogliamo a Hong Kong. La Cina non è più una priorità, insomma, il distacco dal continente è volutamente ostentato.
Di fronte all’avvitamento su se stesso del movimento, restava a questo punto la pattuglia pan-democratica nel parlamentino locale. Affinché la riforma passasse, erano necessari i due terzi dei voti del Consiglio Legislativo, ma l’opposizione è riuscita a restare compatta e quella percentuale non è stata raggiunta: riforma elettorale bocciata.
Al momento del voto, si è verificato anche un piccolo giallo: i parlamentari pro-riforma e pro-Pechino sono usciti in massa dalla sala del consiglio, così agli annali resta una conta finale di 28 “no” e solo 8 “sì”. Se fossero rimasti al loro posto, avrebbero vinto per 42 a 28, risultato ancora insufficiente per far passare la riforma elettorale, ma riaffermazione dell’esistenza di una cospicua maggioranza favorevole. In realtà, pare che volessero rimandare il voto di qualche minuto per consentire a un loro collega di rientrare in aula, ma il presidente dell’assemblea aveva già dato inizio alle operazioni di voto. Insomma, un pasticciaccio e una brutta figura. A meno che ci sia dietro qualcosa che ci sfugge. Lasciamo questo aneddoto in sospeso.
La bocciatura della riforma elettorale è una vittoria per i democratici?
Difficile da dire. È quasi certo che alle elezioni del 2017 per il governatore e a quelle del 2020 per il LegCo, si vada a questo punto con il vecchio metodo: suffragio ristretto, riservato a delle consorterie che rappresentano i settori degli affari di Hong Kong. Quindi, sul piano pratico, ci si allontana ulteriormente da quella “democrazia genuina” tanto desiderata. Tafazzismo alla hongkonghina, verrebbe da dire. Ma sul piano simbolico, è stato comunque dimostrato che a Hong Kong la volontà di Pechino non passa senza colpo ferire.
I commenti del giorno dopo sono più o meno concordi nel dire che in questa storia ci sono solo perdenti.
Oggi abbiamo, da una parte, una Hong Kong divisa al suo interno su linee sociali, politiche, generazionali; dall’altra, una Cina che non è riuscita comunque a conquistare cuori e menti come si proponeva dopo l’handover del 1997, il passaggio della colonia britannica a Pechino secondo la formula “un Paese, due sistemi”.
L’impressione è che il futuro non dipenderà tanto dalle architetture istituzionali, o dalle riforme solo elettorali, bensì dalla trasformazione del tessuto sociale, anagrafico ed etnico della città. Dal tempo che scorre, come l’acqua nella Victoria Harbour.