Recentemente premiato al Festival di Trento, il documentario di Jocelyn Ford, corrispondente radiofonica a Pechino, sta facendo il giro del mondo. Il personaggio centrale del suo lavoro è Zanta: la giovane donna tibetana, con il figlio al seguito, cerca il suo futuro nella capitale cinese. La giornalista diviene testimone della discriminazione operata dalla società cinese e tibetana. Non è permesso, infatti, per una donna tibetana cercare il proprio futuro lontano dalla comunità di origine e l’accoglienza a Pechino rispecchia la difficile situazione dei migranti di diverse etnie.
Nowhere to call home non lascia indifferenti. Jocelyn Ford agisce all’interno del film, si allontana dallo stereotipo del giornalista come mero collezionista di fatti e opinioni e ci spinge a riflettere in modo più ampio sul ruolo del regista all’interno del documentario.
Abbiamo intervistato Jocelyn Ford e per chi fosse interessato, il documentario potrà essere visto su Arte, il 30 giugno e il 3 luglio.
Prima di incontrare Zanta, quali sono state le tue riflessioni sulla questione tibetana? Quale storia cercavi e quali argomenti avresti voluto approfondire sul Tibet?
Lavorando come corrispondente a Pechino, naturalmente devo essere informata su molti temi in Cina, incluse le minoranze etniche. Il giorno in cui mi sono fermata a parlare con Zanta volevo solo conoscere qualche tibetano, avere dei contatti, nel caso mi servissero per delle storie in futuro. Mi sono sempre interessati gli argomenti che trattano di ingiustizie poco note, ma non avevo un interesse particolare sul Tibet. Dopo essere stata testimone della discriminazione ostentata dalla maggioranza Han e dell’umiliante discriminazione di genere, operata dalla stessa comunità di Zanta in Tibet, ho capito che questa era una storia da raccontare. Forse è stato ingenuo ma mi ha stupito molto sapere che pochi hanno approfondito la questione femminile, il trattamento che subiscono le donne o solamente mostrare la vita di un comune tibetano che vive nella comunità cinese, tutto questo nonostante la grande attenzione riguardo il Tibet.
Quale aspetto della storia di Zanta è interessante per un film? Perché hai scelto di fare un documentario e non scrivere un articolo o un foto-reportage?
In teoria non avevo intenzione di fare un film. Lavoro in radio come corrispondente e non avevo le basi da film-maker, ma il mio produttore, Hao Wu, che lavora anche come regista, ha visto un breve lavoro video fatto su Zanta e mi ha parlato dell’opportunità di fare un film. Al tempo ho pensato fosse una buona opportunità per imparare qualcosa. Detto questo ho scoperto che i film coinvolgenti a livello emotivo, possono divenire un catalizzatore di incredibile efficacia per spingere il pubblico a riflettere in maniera più profonda. Alcune persone hanno affermato che Zanta gli è rimasta dentro per giorni o settimane. Nessuno ha mai fatto lo stesso commento su un mio pezzo in radio.
Secondo la tua esperienza in giornalismo, cos’è una buona storia?
Ci sono molte buone storie nel giornalismo. Ma a livello personale, mi piace lavorare su storie che posseggono le quattro C: controintuitività, conflitto, contraddizione e Carisma. Recentemente ho aggiunto altre due parole che iniziano la lettera C: commedia e confronto.
Il tuo documentario sembra avere un grande impatto sociale, è stato un tuo scopo iniziale? (mi riferisco al dibattito innescato dentro e fuori la Cina)
Il mio scopo iniziale è stato quello di informare le persone sulla situazione dei migranti tibetani a Pechino. In principio non ero a conoscenza del problema in cui versavano le donne. Non sapevo che Zanta avesse un’attrattiva così universale. Ci sono state persone da molti paesi al mondo – Messico, Stati Uniti, Sud Africa, Pakistan, Bangladesh, solo per nominarne alcuni – per cui Zanta poteva essere una loro sorella, una madre o una vicina di casa. Zanta è un personaggio rappresentativo per coloro i quali lasciano la loro condizione di vita ed migrano in un’altro luogo con cultura e modi di vivere diversi perseguendo un futuro migliore per le generazioni future. Non pensavo che il mio film potesse essere visto in Cina e generare un dibattito su tematiche importanti di carattere sociale. Ho impiegato molto tempo per realizzare questo film, e forse, nel momento in cui l’ho finito, la società cinese è cambiata e i giovani cinesi erano pronti per affrontare questi temi.
Quando e come hai deciso intervenire in prima persona nella storia di Zanta e quali sono state le tue considerazioni in quel momento?
E’ stato abbastanza facile. Penso che tutti i bambini debbano avere un’educazione. Quando Zanta di punto in bianco mi ha telefonato, dopo due anni dal nostro primo incontro e mi ha chiesto di aiutarla, ma non ero sicura di potermi fidare di lei. Ma gli occhi di suo figlio di soli sette anni, raccontavano la necessità di una madre più di ogni altra cosa. Non ho mai visto un bambino di quell’età così legato a sua madre. Ho corso il rischio e l’ho aiutata a trovare una scuola per suo figlio. All’inizio non volevo essere troppo coinvolta nella loro vita, in quanto da esperienze personali precedenti, non si fa mai abbastanza per qualcuno in povertà, se qualcuno si ammala ad esempio, sei chiamato a fare qualcosa, e devi decidere cosa fare. Ma allo stesso modo bisogna fare ciò che è nei propri mezzi e agire. A tempo non avevo intenzione di lavorare ad una storia su di loro, per non parlare di un film.
La tua sfida agli stereotipi e ai tabù: il alto oscuro dei tibetani, il razzismo cinese nei confronti degli immigrati e il ruolo del giornalista e il suo rapporto con il personaggio. Tutti temi fondamentali che sono all’interno del tuo film. Quale tema è necessario approfondire per un reportage o un documentario in futuro e perché.
Il mio film tratta di diversi temi. La discussione a cui tengo di più è sulla tolleranza nel mondo globalizzato, lo stato della donna e l’educazione in Cina, che miri in maniera effettiva al rispetto per le culture minoritarie e che riconosca i diversi bisogni e i valori di diversi gruppi sociali. Sarei anche felice se il mio film fosse utilizzato per discutere sulla competenza dei mezzi di informazione.
La tecnica cinematografica (riprese, montaggio e post produzione) come hanno influenzato il tuo modo di raccontare la storia si Zanta?
Il mio scopo era di raccontare una storia coinvolgente e far sì che il pubblico lo volesse guardare dall’inizio alla fine. Ho deciso di ignorare alcuni consigli dei professionisti del mestiere, quelli di chi è fin troppo affine nel saper definire una struttura e una teoria. Mi sono messa in discussione e, alla fine, ho raccontato la storia nel modo che ho ritenuto fosse più efficace. A dire il vero la struttura finale è abbastanza simile a quella che avevo in mente, tranne le parti in cui anche io gioco un ruolo nel film, non doveva prendere così tanto spazio al principio. Sono una corrispondente radiofonica, preferisco essere ascoltata e non vista. Ma alcuni riscontri avuti, durante alcune proiezioni fatte per prova, mi hanno convinto a diventare un personaggio sviluppato nella sua interezza.
Oltre il voice off che descrive il nonno come un despotico tiranno, ci sono stati alcune inquadrature e alcuni momenti di osservazione in cui si evinceva il cuore tenero e del sincero affetto nei confronti del nipote. Puoi raccontarci di più sulla loro relazione e sul contesto familiare?
Il nonno di Yang Qing riflette i valori tradizionali e la sua lotta contro il violento cambiamento della società. Ama il nipote ma vive anche il timore di rimanere da solo in una scoscesa montagna quando lui e sua moglie saranno vecchi. Yang Qing è stato il primo bambino del villaggio ad andare a scuola a Pechino, altri hanno seguito il suo esempio. Recentemente il nonno ha cambiato idea e pensa sia giusto per Yang Qing ottenere un’educazione.
Interessante è stato un nativo americano che ha trovato delle somiglianze tra il nonno di Yang Qing e gli anziani della sua comunità. Danno ai bambini un amore duro perché devono essere molto forti per sopravvivere.
Qual’è stato l’impatto del documentario per il pubblico cinese? Quali sono state le domande più frequenti dopo la proiezione?
Ho proiettato il film ad un pubblico cinese* in molte città, percependo una differenza generazionale. I giovani sono molto più colpiti dall’ingiustizia riscontrata e vogliono fare qualcosa, vogliono agire, chiedono cosa posso fare a livello personale. Gli accademici più anziani, nelle istituzioni statali, cercano delle spiegazioni per la diseguaglianza e suggeriscono di modificare qualcosa attraverso politiche governative valide. Pochi cinesi posseggono una struttura intellettuale per discutere o analizzare le cause sottostanti la discriminazione. E’ una conversazione importante se ci spinge a un percorso più giusto, più tollerante e ad una società ancora più armoniosa.
*Il termine “cinese” può confondere, in quanto si può riferire ad un gruppo etnico o a una nazionalità. Preferisco usare il temine cinese Han della Repubblica popolare cinese, per indicare il mio riferimento non ai cinesi della diaspora, per esempio, ai singaporeani, ai taiwanesi, ai cinesi americani, o ai cinesi non Han della Repubblica popolare, come i gruppi etnici di origine musulmana, i cinesi coreani, e gli altri di più di cinquanta minoranze etniche identificate in Cina.