Xinjiang: il difficile melting-pot (1/3)

In by Simone

In Xinjiang, è passato quasi un anno dal lancio della campagna contro “i tre mali”: terrorismo, separatismo ed estremismo religioso. Mentre si snocciolano i numeri di arresti ed esecuzioni e la regione autonoma resta blindata, cerchiamo di capire cosa stia succedendo. C’è qualcos’altro oltre al binomio terrorismo-repressione? Una ricostruzione in tre puntate 28 marzo 2015. La stilista Cheng Yingfen, originaria della Regione Autonoma Uigura dello Xinjiang, porta in passerella nella location artistico-chic della 798 di Pechino una collezione autunno-inverno ispirata ai costumi tipici della sua terra. Il sito della Federazione delle Donne Cinesi, racconta che la maison di Cheng, “Stella sulla Via della Seta”, partecipa per la seconda volta alla China Fashion Week “per promuovere disegni originali cinesi che integrano la cultura tradizionale dell’abbigliamento uiguro con la moda contemporanea”.
“La collezione 43° Latitudine Nord – aggiunge l’articolo – presenta motivi ornamentali tradizionali dello Xinjiang e utilizza come materie prime fibre naturali e lana di alta qualità prodotte in Xinjiang”.

29 marzo 2015. Un uomo di 38 anni è condannato a sei anni di reclusione da un tribunale di Kashgar, Xinjiang. A sua moglie viene inflitta una pena di due anni. La coppia è colpevole di “creare conflitti e provocare guai”, riporta il Zhongguo Qingnian Bao, quotidiano della gioventù. L’uomo “aveva cominciato a farsi crescere la barba nel 2010”, mentre la moglie “indossava un velo, che le nascondeva il viso, e un burqa”, racconta il giornale. Il “progetto bellezza” lanciato dal governo cinese nel 2013, incoraggia le donne uigure a smettere il velo. La coppia aveva già “ricevuto diversi avvertimenti”, scrive ancora il giornale, citando funzionari locali.

LA TRADIZIONE CORRETTA
“La regione autonoma dello Xinjiang ha avviato un processo di standardizzazione dei costumi etnici che si completerà probabilmente nel corso del 2015”, dice James Leibold, docente di “Asian Studies” che vive a Pechino. “Verrà stabilito quali sono consentiti e già sappiamo che il velo non sarà incluso: né quello che copre il volto né quello che si mette in testa. Tutto bene, invece, per la versione femminile della doppa [il cappello a zuccotto tipico dell’Asia centrale, ndr]”. È una standardizzazione del tipico, una tradizione consentita, che si vede già nelle migliaia di ristoranti uiguri disseminati per la Cina.

Pechino. Lei ha gli occhi verdi affilati e la treccia che raccoglie i capelli mossi. Si muove tra i tavoli con il suo qiapan, la palandrana ricamata sugli orli, blu petrolio d’inverno e verde d’estate. In testa, indossa rigorosamente la doppa. È uguale a tutte le altre ragazze del “Luna Crescente”, la locanda uigura del sesto hutong. Compostezza e ordine anche quando, a sera tarda, i movimenti già agili si fanno trascinati. Una bellezza discreta e modi che tengono a distanza. Le giovani cameriere del ristorante etnico di Pechino vestono il consentito: ciò che si può. Ma la biaozhunhua, la standardizzazione, viene da relativamente lontano. Alla cerimonia d’apertura delle Olimpiadi di Pechino 2008, un gruppo di bambini in rappresentanza delle cinquantacinque minoranze riconosciute sfilò portando una grande Wu Xing Hong Qi, la “bandiera rossa dalle cinque stelle”. Tutti in abito tipico, quello sdoganato: si può essere uiguri – orgogliosi membri della minoranza islamica e turcofona – ma bisogna corrispondere a un certo aspetto.

STANDARDIZZARE
Standardizzare il consentito sembra un vero e proprio principio guida della nuova leadership cinese, soprattutto dopo il quarto plenum di fine 2014, quello dedicato allo Stato di diritto. Nel commentarlo, molti osservatori sono concordi nell’assumere la distinzione anglosassone tra rule of law e rule by law, per dire che la Cina perfezionerà il sistema legale come tecnica di governo: yifa zhiguo, cioè “governare il Paese attraverso la legge”, una formula del legismo che, con il confucianesimo, è una della due grandi scuole politiche dell’antichità. Yifa zhiguo vuol dire che l’imperatore usa la legge come metodo; non che si pone sotto di essa. Il diritto serve a mantenere l’ordine e a mettere in pratica le riforme necessarie alla Cina, ma non va collocato al di sopra della leadership e del suo potere decisionale.
Nella Cina contemporanea, si tratterà quindi di creare un pacchetto di leggi o norme – degli standard, appunto – che diano a tutti idea di cosa si può fare e non si può fare. Ed ecco i nostri vivaci abiti uiguri rigorosamente senza velo.

MODERATAMENTE RELIGIOSI
Ma non di soli vestiti si tratta.
25 gennaio 2015. I pellegrinaggi alla Mecca saranno d’ora in poi sottoposti alla gestione rigorosa e alla supervisione delle autorità regionali dello Xinjiang, riportano i media cinesi. Il nuovo regolamento, in vigore retroattivamente dal 1 gennaio, impone ai musulmani che vogliono recarsi nella città santa dell’Islam di farlo con un tour organizzato dalle agenzie di Stato. La normativa – si legge – è parte di una campagna per prevenire la corruzione. Trentadue funzionari sono stati infatti appena indagati e puniti per avere concesso il pellegrinaggio a persone “non qualificate”, dietro pagamento di mazzetta.
“Corruzione” è il concetto con cui nella Cina di Xi Jinping si giustifica ogni misura coercitiva. “In Xinjiang, sei formalmente libero di praticare quello che ti pare, di credere nell’Islam, ma ci sono regole su come farlo”, continua Leibold. “Esiste una lista di 24 attività religiose illegali e molte hanno a che fare con i giovani. Per esempio, c’è il divieto di praticare il digiuno per i minori di 18 anni, basato sull’idea che chi non ha raggiunto la maggiore età, non è nei fatti libero di scegliere. Lo stesso vale per l’appartenenza al Partito: se ti iscrivi, non puoi essere anche praticante”.

BASTONE E CAROTA
La norma è accompagnata dall’incentivo; il bastone dalla carota.
L’adesivo distribuito dai comitati di quartiere di Urumqi è come una medaglia da appuntarsi al petto. Reca la scritta Ping’an Jiating: casa – o anche famiglia – sicura, pacifica. È rosso, bilingue, in cinese e uiguro. Viene donato ai nuclei familiari che “si comportano bene”; se lo appiccicano sulla porta di casa. Dietro a quell’uscio, non abita nessun praticante religioso. Ma ci sono anche premi più sostanziosi. Nell’ambito del “progetto bellezza”, un gruppo di donne della prefettura di Kashgar è partito in viaggio premio per le grandi città dell’est. Tutto pagato. Erano signore di una certa età che avevano deciso di farla finita con il velo. Nel frattempo, con qualche trucchetto burocratico si chiudono qua e là negozi che vendono hijab. Carota e bastone.
Certo, nella grande e diversificata Cina c’è anche bisogno di flessibilità: “Non mi risulta, per esempio, che le donne hui siano scoraggiate a portare il velo”, dice Leibold. Gli hui sono i musulmani di etnia cinese han. Sono sparsi in tutta la Cina, poco identitari e quindi non pericolosi. Affidabili e quindi più liberi nelle pratiche religiose.

1.continua