La Cina il merito di essere il più dinamico laboratorio intellettuale e sperimentale al mondo in grado di elaborare strategie per la creazione di un ordine internazionale nuovo. Il contributo del professor Maurizio Scarpari nel dibattito su un ipotetico colasso della Cina riaperto recentemente dal sinologo David Shambaugh.
Ci risiamo: alla tentazione di far profezie è difficile resistere. Un meccanismo complesso ha generato una serie infinita di previsioni catastrofiste, come ha ben spiegato Joseph Joffe nel suo Perché l’America non fallirà. Politica, economia e mezzo secolo di false profezie (Novara 2014), che hanno di volta in volta allarmato gli Stati Uniti e, di conseguenza, il mondo occidentale, per poi rivelarsi inconsistenti. Vale per gli Stati Uniti così come per la Cina, da decenni sull’orlo di un collasso annunciato ma mai avvenuto. David Shambaugh era tra coloro che procedevano con prudenza e sobrietà nel valutare la situazione cinese e nel delineare gli scenari futuri. Ora ha deciso di passare tra le file dei catastrofisti: a suo dire sarebbe imminente l’implosione del governo cinese, a motivo dei cambiamenti troppo radicali avvenuti con l’ascesa al potere di Xi Jinping, che egli giudica troppo autoritario, dispotico e repressivo. Il vero sogno cinese consisterebbe, secondo l’autorevole docente della George Washington University, nell’evitare il ripetersi dell’incubo sovietico (il dissolversi del Partito comunista e il conseguente crollo dell’Unione) e, per Xi Jinping, di trovarsi nella posizione di Michail Gorbacëv.
In altre parole, sarebbe il ruolo del PCC e dei suoi leader a rappresentare il nocciolo del problema, e su questo punto non si può che concordare con Shambaugh. È infatti questo il nodo cruciale intorno al quale si sta giocando una partita molto difficile in Cina: la sopravvivenza stessa del Partito-Stato è in pericolo, e anche quella della classe politica che ha nell’appartenenza al Partito la sua legittimazione. Per vincere la sfida è dunque necessario migliorare le condizioni di vita dei cinesi, realizzando riforme strutturali coraggiose in grado di incidere profondamente sull’apparato produttivo e sul tessuto sociale, logorato da decenni di corsa frenetica alla ricchezza, e rafforzare la posizione della Cina sullo scacchiere internazionale, non solo dal punto di vista economico, ma anche diplomatico, culturale e militare. L’immagine che Xi Jinping intende trasmettere è quella di una nazione forte e prospera, consapevole delle responsabilità che le competono nella ridefinizione dei nuovi assetti geopolitici e desiderosa di operare fattivamente per la creazione di un mondo multipolare, non più condizionato dalla leadership di un’unica superpotenza. È un’impresa non facile, visto il grande divario che ancora separa la Cina dagli Stati Uniti.
Per promuovere le riforme necessarie e garantire la loro applicazione Xi Jinping ha dovuto innanzi tutto rafforzare la propria posizione personale all’interno del Partito e degli organi di governo e quella dei suoi più fedeli collaboratori, accentrando rapidamente nelle proprie mani le cariche di comando dei settori strategici essenziali. Ha avviato una politica di moralizzazione a tutto campo per contrastare il fenomeno della corruzione, diffusa ormai a ogni livello dell’apparato statale e della società (occasione per eliminare dalla scena politica alcuni suoi temibili avversari). In politica estera ha cercato di trovare il giusto equilibrio tra una posizione più assertiva rispetto al passato e una disponibilità all’apertura e al dialogo. Ha inoltre favorito lo sviluppo del settore culturale e scientifico per elevare il livello qualitativo dell’istruzione e della ricerca, promuovendo i valori tradizionali cinesi a discapito di quelli importati dall’Occidente, ritenuti inapplicabili alla realtà cinese. L’esigenza è innanzi tutto quella di ricostruire un orgoglio nazionale in grado di tenere unito il paese in attesa che le riforme si concretizzino e portino i risultati sperati. La ricerca del consenso internazionale è diventata una priorità della politica estera cinese e la cultura è ritenuta lo strumento più efficace per conseguirla.
La funzione che la cultura tradizionale dovrebbe assumere per la formazione di una coscienza nazionale più consona alla morale socialista e più in linea con le direttive del PCC è andata delineandosi soprattutto nel corso dell’ultimo anno. L’ideologia dominante all’interno del PCC si rifà sempre più a dottrine e ideali propri di sistemi di pensiero – primo fra tutti il confucianesimo – fino a poco tempo fa messi al bando perché ritenuti contrari allo sviluppo armonioso di un paese socialista. Si tratta di un’inversione di rotta rispetto al più recente passato, che esprime la volontà di riappropriarsi di un sistema etico, sviluppatosi nel corso dei secoli, ritenuto funzionale alla costruzione di una nuova “moralità di stampo socialista”, che sappia mettere l’uomo al centro dell’attività politica e di governo, restituendogli una dimensione spirituale troppo a lungo negata e condizioni di vita migliori, soprattutto in quelle aree del paese meno beneficiate dal successo economico. L’operazione in atto è ardita, poiché cerca di approdare a un nuovo sistema ideologico fondato sull’innesto delle dottrine promosse da Confucio nel corpo del liberalismo economico introdotto da Deng Xiaoping e del pensiero di ispirazione marxista-leninista di Mao Zedong, a cui non s’intende in alcun modo rinunciare e di cui Xi Jinping si erge a massimo interprete e difensore.
Vanno inquadrate in quest’ottica le politiche espansioniste avviate da Xi Jinping, sostenute da capitali immensi. L’istituzione degli Istituti Confucio ovunque nel mondo per promuovere la lingua, la cultura e gli scambi va in questa direzione e procede di pari passo con l’offensiva diplomatica che ha portato a una serie di successi e alla creazione di organismi internazionali non dipendenti dagli americani e dai loro alleati: la New Development Bank, che fonde le funzioni della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale (controllati dagli Stati Uniti), e l’Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB), istituto finanziario globale in grado di competere con la Banca mondiale e con l’Asian Development Bank (controllata da Stati Uniti e Giappone). La loro missione è incrementare progetti d’integrazione economica e infrastrutturale – strade, ferrovie, porti e così via – per facilitare i collegamenti tra i paesi dell’Asia centrale e meridionale e la Cina lungo le ristabilite “Cintura economica della Via della seta” e “Via marittima della seta”.
Il sogno di un’Asia non più dominata dall’Occidente e dalle sue istituzioni finanziarie ma protagonista del proprio destino rappresenta la trasposizione al di fuori dei confini nazionali del nuovo sogno cinese. Il peso economico e politico che una regione Asia-Pacifico unita e forte potrebbe avere sullo scacchiere internazionale e le ripercussioni positive che ne deriverebbero sugli equilibri mondiali, tutti da ridefinire, sarebbero, secondo i cinesi, immensi. Per favorire il processo di sviluppo comune e l’integrazione regionale il governo cinese sta mettendo a disposizione di progetti finalizzati a tali obiettivi gran parte delle sue imponenti riserve in valuta e la sua crescente influenza politica. Non deve quindi sorprendere la reazione irritata degli Stati Uniti e di parte della comunità internazionale occidentale, che percepiscono come una minaccia grave l’offensiva cinese, definita da Matthew P. Goodman, titolare della cattedra di Economia politica presso il prestigioso Center for Strategic and International Studies di Washington, “la prima sfida istituzionale seria per gli assetti economici mondiali stabiliti a Bretton Woods 70 anni fa”. Ciò nonostante, alleati storici degli Stati Uniti hanno deciso di entrare nella AIIB come membri fondatori, non solo asiatici ma anche europei, come Gran Bretagna, Francia, Germania e Italia.
Nonostante i numerosi problemi da risolvere e la preoccupante “stretta” ideologica degli ultimi mesi, la situazione attuale e le prospettive future non sembrano preludere a un crollo imminente. I problemi ci sono, non sono pochi e di facile soluzione, ma va riconosciuto alla Cina il merito di essere, al momento, il più dinamico laboratorio intellettuale e sperimentale al mondo, in grado di elaborare strategie atte a contribuire alla creazione di un ordine internazionale nuovo, basato su principi diversi da quelli attuali, che ogni giorno di più si stanno rivelando inadeguati in un contesto geopolitico in rapida evoluzione.
*Maurizio Scarpari ha insegnato Lingua cinese classica dal 1977 al 2011 presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Per Einaudi ha pubblicato Il confucianesimo. I fondamenti e i testi (2010) e ha diretto, per le Grandi Opere, i volumi dedicati alla storia della civiltà cinese (La Cina, 2009-2013).
[Scritto per il manifesto]