India – La rivoluzione possibile dell’uomo comune

In by Simone

Arvind Kejriwal, leader di Aam Aadmi Party (Aap) ha compiuto un miracolo politico, vincendo le elezioni locali di New Delhi lasciando a bocca asciutta sia la coalizione guidata dal Bharatiya Janata Party (Bjp) sia un Indian National Congress (Inc) impantanato in una crisi identitaria probabilmente senza precedenti. È l’inizio di una rivoluzione? Sono in India da più o meno quattro anni e ho avuto la fortuna di seguire l’intera parabola di Aam Aadmi Party, dalla nascita come costola politica del movimento di Anna Hazare India Against Corruption, passando per il governicchio di 49 giorni a New Delhi di inizio 2014, dalla disfatta alle scorse elezioni nazionali, fino a ieri, il giorno del trionfo. E a me il partito dell’uomo comune non è mai piaciuto.

Ho passato serate a discuterne, anche animatamente, con diversi amici indiani, affascinati da un partito politico apparentemente venuto da Marte in termini di comunicazione, tematiche, sfacciataggine nel denunciare il mali della Cosa Pubblica, assenza di asservimento al potere costituito (sia politico sia economico). Probabilmente peccando di superficialità, provavo a spiegare che noi in Italia una cosa così l’avevamo già pensata, vista nascere e crescere, malsopportata: si chiama(va) Movimento Cinque Stelle e per chi ci aveva creduto – nella stragrande maggioranza dei casi – è stata una delusione cocente, una serie di belle speranze infrante contro il muro del populismo, del trash, del complottismo più becero.

Credo che Aap, fino alla mazzata delle elezioni per la Lok Sabha, abbia ricalcato a grandi linee lo stesso percorso coperto dal M5S: fare leva sull’indignazione popolare, inserendosi in un contesto di sfiducia totale nei partiti tradizionali; vincere alle urne, forti di un attivismo online inedito nel paese; incartarsi nel passaggio da movimento d’opinione a forza di governo, incapaci di mettersi d’accordo col resto delle forze politiche con le quali in qualche modo bisogna almeno dialogare; scontentare gran parte dell’elettorato e finire nel dimenticatoio generale, schiacciati dalla Modi Wave ultracapitalista hindu come in Italia è successo con l’arrivo del renzismo (i due hanno tantissimi punti in comune, un giorno proveremo a parlarne).

Per questo, quando ieri Aap contro ogni aspettativa ha strapazzato tutti qui a New Delhi portandosi a casa 67 seggi su 70 (non succedeva a nessun partito dal 1993), sono stato felice di ricredermi, almeno parzialmente, apprezzando il tratto distintivo più marcato di questo nuovo partito nel panorama indiano: saper correggere il tiro, imparare dagli errori.

Dopo le dimissioni polemiche di Kejriwal dalla carica di chief minister di New Delhi (un anno fa), nessuno avrebbe scommesso un centesimo sul ritorno di Aap, nemmeno gran parte degli attivisti di partito, in larga maggioranza appartenenti ad ambienti universitari "di sinistra", anche "estrema" (per quanto si possa essere estremamente di sinistra qui in India, cioè molto poco). Invece Kejriwal e i suoi più stretti collaboratori si sono rintanati lontano dai riflettori dei media e hanno iniziato a studiare il campo, analizzare la complessa situazione politica attuale, stilando una ricetta di successo che forse, ora, potrà essere declinata e riadattata ad altri contesti in cui Aap può fare bene: l’India urbana, senza dubbio, forse col potenziale di allargarsi in stati relativamente ricchi come Punjab, Tamil Nadu, Kerala.

E la ricetta è questa: semplicità, umiltà, occuparsi di problemi concreti (bollette gonfiate, funzionari corrotti, sicurezza nelle strade, approvvigionamento dell’acqua e dell’elettricità) e soprattutto slegare la religione dalla politica, creare un partito davvero laico.

Le condizioni a New Delhi erano ottimali. La capitale indiana non è mai stato territorio a trazione hindu, nei decenni ha ospitato ondate di migranti prima dal Pakistan (dopo la Partition), poi dal Bangladesh (nel 1971), dall’Afghanistan, dagli stati del nordest. A ogni comunità, in piena tradizione urbanistica di stampo socialista, sono stati dati interi quartieri colonie (Malviya Nagar ai punjabi e ai sikh, CR Park ai bangladeshi, Lajpat Nagar agli afghani etc.) nei quali sono cresciute comunità tutto sommato pacificamente eterogenee, scongiurando il rischio di ghettizzazione culturale.

Pur mantenendo le caratteristiche culturali e religiose originarie, gran parte di New Delhi vive in un melting pot reale in cui – faccio l’esempio di Malviya Nagar, dove vivo – le comunità musulmana, hindu, sikh e cristiana convivono senza problemi: cinque volte al giorno si sentono i muezzin delle moschee del quartiere, esci di casa e incroci sikh inturbantati, passi davanti a una chiesa cristiana, il negozietto sotto casa ha altarini per le puja giornaliere alle divinità hindu, il mio tabaccaio è hindu del bengala occidentale e condivide una parete col mio barbiere, musulmano. Non si menano, la maggior parte delle volte se la chiacchierano fuori e mi prendono un po’ in giro per il mio hindi ancora approssimativo.

Insomma, salvo casi estremi – ed eterodiretti, nella maggior parte dei casi – di periferie turbolente (dove però i problemi veri sono di carattere prettamente economico, non religioso), New Delhi mi sembra una città dove l’esperimento del multiculturalismo sta avendo successo. Anche per questo, a livello locale, è sempre stato un bastione del partito laico del Congress, superando in una certa misura anche le follie dei pogrom anti sikh del 1984.

Il Congress (0 seggi vinti in queste elezioni), al momento è un partito inesistente, incapace di opporre una resistenza almeno mediatica alla frenesia collettiva panindiana per l’ultracapitalismo hindu di Narendra Modi, che ha saputo ammaliare l’elettorato nazionale con la promessa di soldi, soldi, soldi, chiudendo sistematicamente gli occhi di fronte alle intemperanze  – sempre più frequenti – dei movimenti extraparlamentari ultrainduisti della Sangh (i fascisti indiani). Assieme al sogno di ricchezza per tutti  e di un ritrovato orgoglio nazionale, il Bjp di Modi (e di Amit Shah, presidente del Bjp) ha fatto leva e fomentato le divisioni intercomunitarie, mettendo hindu contro musulmani, dalit contro brahmin, migranti contro residenti, proponendosi poi come forza egemone capace, grazie al vikas (progresso), di appianare tutte le iniquità.

Il trucchetto aveva funzionato a livello nazionale, dove la campagna elettorale si conduceva contro un Congress già morente e reduce dagli effetti della crisi economica globale, dove più fece la promessa di soldi che la minaccia – implicita – di mandare al governo un partito fondamentalmente  ultrainduista, con le conseguenze che subito abbiamo iniziato ad osservare (tagli alla cultura, via libera a violenze di piazza contro minoranze etniche e culturali, restringimento ulteriore della libertà d’espressione, ghar wapsi e conversioni forzate, pogrom settari in Uttar Pradesh…) alle quali non è ancora corrisposto un innalzamento sensibile del tenore di vita di nessuno. E siccome squadra che vince non si cambia, il duo Shah-Modi ha provato a ripetere il copione a New Delhi, probabilmente consci che la battaglia in una capitale che non li ha mai amati poteva essere più dura del previsto.

Col senno di poi, il significato della candidatura dell’outsider Kiran Bedi (poliziotta dalla fama integerrima) è stato proprio mettere le mani avanti, trovare un potenziale capro espiatorio sul quale scaricare la – prevedibile – sconfitta.

Numeri alla mano, il Bjp ha comunque tenuto, perdendo solo l’1 per cento dei voti rispetto alle scorse elezioni. Ma mantenendo il proprio elettorato, fedele all’impianto di cui sopra, ha polarizzato il voto di protesta indirizzandolo interamente verso Aap, che ha prosciugato tutti i voti che – in altri tempi – sarebbero andati al Congress. Kejriwal è stato votato trasversalmente da chiunque non aderisse all’ideale "vincente" di NaMo: musulmani, sikh, cristiani, classe media benestante e progressista, poveri, studenti "di sinistra"…

La battaglia alle urne non si è combattuta sui temi concreti – spesso speculari e drammaticamente populisti  sia per il Bjp che per Aap – ma sull’immagine proiettata all’elettorato: da un lato c’era, grillinamente parlando, "la casta", rappresentata dal Bjp già al potere al governo federale, con un sacco di vecchie facce che si sono spese in campagna elettorale, gente che in India si vede da almeno 20 anni; dall’altra il nuovo che avanza, Arvind Kejriwal in divisa da uomo comune (occhialini, camicina bianca, golfino blu, sciarpa arrotolata intorno alla testa), molti accademici prestati alla politica, centinaia di attivisti giovanissimi, non un riferimento identitario di stampo religioso, discorsi abilmente sviluppati in un’alchimia tra populismo, indignazione, dati numerici e speranza,  nessuna paura delle domande dei media, pochi colpi bassi, quasi nessun insulto.

La vittoria di Aap, in definitiva, non sposta di un millimetro l’egemonia del Bjp a livello nazionale, ma dal 14 febbraio (quando Kejriwal giurerà nuovamente come chief minister di New Delhi) avrà l’occasione di sperimentare un modello di politica  locale antitetico a quello vagamente totalitario proposto da Narendra Modi.

L’eventuale successo, partendo dalla lotta alla corruzione portata avanti sui binari paralleli di educazione e punizione dei criminali, potrebbe fare da laboratorio per una strategia politica nazionale che possa contrastare la deriva ultranazionalista del Bjp. Un esempio virtuoso che lo stesso Aap potrebbe portare avanti ramificandosi con la medesima cura nelle zone rurali del paese.

O che potrebbe invece essere abbracciato da un Indian National Congress fortemente riformato, liberato dal fardello di una dinastia Gandhi ormai completamente invisa al proprio ex elettorato di riferimento, riprendendo il posto vacante (a livello nazionale) di baluardo della laicità e delle classi disagiate che in India (tutta, non solo l’India delle megalopoli) sono ancora la maggioranza del tessuto sociale.

[Scritto per East online; foto credit: huffingtonpost.in]