Il leader cinese recupera terminologia e pratiche maoiste: controllo dei media e arte al servizio del Partito. Xi Jinping è tornato a parlare di linea di massa e di unità ideologica del Partito. C’è chi ritiene che tutta la sua campagna anticorruzione, altro non sia che una manovra per fare piazza pulita delle gang presenti nel Partito.
Il presidente cinese Xi Jinping ha recentemente invitato gli artisti cinesi a sviluppare concetti vicini al socialismo e ai valori tradizionali, chiedendo loro di regalare alla storia cinese forme artistiche capaci di essere recepite dal popolo. Un’arte «del popolo, per il popolo». Affinché questo avvenga nel migliore dei modi, Xi Jinping ha messo in moto una macchina organizzativa del Partito che porterà artisti, sceneggiatori, registi, attori, produttori di cinema e televisione in campagna «per imparare la vita vera».
Una sorta di nuova edizione della Rivoluzione culturale, quando gli intellettuali, con metodi piuttosto sbrigativi, vennero obbligati a vivere in campagna per imparare dai contadini (tra gli anni 60 e 70). Un evento storico ancora oggi non abbastanza discusso in Cina, su cui manca una vera forma di rielaborazione e analisi collettiva e su cui per altro si dividono anche gli intellettuali. La mossa del presidente, ha scritto l’agenzia ufficiale Xinhua, «sarà una spinta per aiutare gli artisti a formarsi una corretta visione dell’arte e creare nuovi capolavori».
Joseph Cheng, professore di scienze politiche presso la City University di Hong Kong, ha dichiarato al Guardian che si tratterebbe di una «campagna di rettifica» nello stile di Mao, volta a mettere a tacere i potenziali critici, mentre Xi conduce una campagna di vasta portata contro la corruzione. «Xi Jinping – ha detto – è sotto forte pressione, perché la sua campagna anti-corruzione ha certamente danneggiato molti interessi costituiti, questo è dunque di nuovo un momento per esercitare pressione sugli intellettuali e sui critici».
Lo scorso ottobre Xi Jinping, in un discorso di fronte ad artisti ha invitato loro a non diventare «schiavi del mercato». Il China Daily ha esultato: «L’arte e la cultura non possono svilupparsi senza una guida politica, bene ha fatto Xi ad aver sottolineato l’integrazione dell’ideologia e dei valori artistici». E proprio la stampa nazionale, sottolineando la la determinazione e l’autoritarismo di Xi Jinping, ha ricordato comportamenti analoghi di illustri predecessori.
Come Mao, Deng e Stalin
I media, su cui è aumentato notevolmente il controllo del Partito sotto il regno di Xi, hanno sottolineato la vicinanza del nuovo leader a chi l’ha preceduto, a cominciare da Mao Zedong. Nel 1942, infatti, il Grande Timoniere aveva specificato a Yan’an che le ambizioni creative degli artisti dovrebbero rispondere all’obiettivo di costruire uno Stato socialista e che «la letteratura e l’arte dovrebbero essere subordinate alla politica».
Come Mao, Xi Jinping ha specificato che gli artisti «dovrebbero produrre opere incentrate sulle masse, in grado di riflettere una comprensione corretta della storia e della cultura». Concetti sviluppati anche in due report ufficiali del Partito, il Documento numero 9 e quello numero 30, i cui contenuti sono parzialmente comparsi sui media cinesi, frutti di un’elaborazione personale del presidente, nei quali viene messa sotto accusa la cultura occidentale, specie nella sua diffusione tra i centri culturali cinesi (media, università su tutti).
Sulla scia dei predecessori di Xi Jinping, anche Deng Xiaoping si era espresso sulla politicità dell’arte. Deng aveva citato addirittura Stalin, quando aveva definito gli scrittori e gli artisti come «gli ingegneri dell’animo umano», specificando l’importanza dello studio di Marx, Lenin e Mao. Come riportato dal New York Times, «dopo le riforme economiche iniziate in Cina alla fine del 1970, gli artisti sono stati più liberi e meno obbligati a far corrispondere la loro produzione con le esigenze ideologiche dello Stato. Tuttavia, avere una carriera pubblica di successo in Cina ha sempre richiesto gesti a sostegno delle linee guida ufficiali».
Recentemente – infatti – anche molte stelle del cinema hanno dovuto accettare di buon grado un ruolo, anche minimo, in alcune produzioni celebrative, riguardo gli anniversari della Repubblica popolare e del Partito comunista. E cento artisti cinesi – solo alcuni mesi fa – hanno copiato il testo a mano di Mao del suo discorso a Yan’an per un’edizione commemorativa. A questa iniziativa ha partecipato anche il premio Nobel Mo Yan.
Perfino Hu Jintao aveva abbozzato una sorta di «riforma culturale», poco prima di lasciare spazio al suo successore. Hu, nel 2012, aveva sottolineato l’importanza dei valori tradizionali cinesi, accusando i valori occidentali di essere responsabili dell’inquinamento spirituale dei giovani cinesi. Hu Jintao definì le arti come veicolo per aumentare il prestigio nazionale e il soft power, spingendo sulla produzione cinematografica, in particolare: «La cultura internazionale dell’Occidente è forte mentre noi siamo deboli», scrisse Hu in un saggio del 2012.
Il «rinascimento cinese»
La mossa di Xi Jinping di mandare gli artisti «a imparare dalla vita vera dei contadini», non può non ricordare quanto stava accadendo a Chongqing, proprio poco prima dell’ascesa dell’attuale leader cinese. Bo Xilai, segretario del Partito della megalopoli, aveva cominciato a mandare i giovani studenti in campagna, recuperando proprio gli slogan della Rivoluzione culturale.
Fu addirittura l’allora premier Wen Jiabao a sottolineare il rischio di tornare su sentieri sbagliati, segnando in pratica la fine della carriera politica di Bo Xilai, da lì a poco espulso, umiliato e condannato (decisione approvate anche da Xi). L’attuale segretario del Pcc sembra riprendere dunque quelle caratteristiche del potere maoista, di cui per lungo tempo si era impossessato proprio Bo Xilai.
Xi Jinping è infatti tornato a parlare di «linea di massa», di unità ideologica del Partito e c’è chi ritiene che tutta la sua campagna anticorruzione, altro non sia che una manovra per fare piazza pulita delle gang presenti nel Partito (oltre alla sua – definita clan del segretario – ci sarebbe il clan del petrolio e il clan dello Shanxi: entrambe fazioni pesantemente colpite dagli organi disciplinari del Pcc).
Insieme a questi concetti maoisti, Xi Jinping ha lanciato il Sogno cinese, caratterizzato dalla «Rinascita della società cinese», da attuarsi con ogni mezzo: attraverso una politica estera più decisa e forte, così come attraverso una produzione culturale che esalti quella che secondo Xi Jinping deve essere una identità cinese comune, in grado di rafforzare lo spirito patriottico del Paese e tenere ferme le pulsioni sociali di un continente in preda a cambiamenti che stanno creando un sempre più ampio divario sociale.
Per la sinistra del Partito è dunque un periodo di grande espansione tra funzionari e quadri, perché la svolta di Xi, anche quella relativa agli artisti, riporta al centro del Partito una concezione maoista di tutta la società, al servizio della nazione cinese. Non a caso, Xi Jinping ha effettuato il suo discorso sull’arte pochi giorni dopo la pubblicazione di un suo articolo su una rivista del Partito, nel quale dissertava circa la «dittatura democratica del popolo», espressione usata da Mao proprio come giustificazione contro gli attacchi di chi rifiutava di aderire alla linea della leadership.
[Scritto per il manifesto]