Un’eccellenza italiana che in Cina parla spagnolo. Quella dell’olio d’oliva è una storia perfetta per comprendere limiti e potenzialità del nostro sistema industriale: una limitatezza territoriale che si riflette nel commercio estero e quel perverso vizio dell’autogol. Insomma, saremo sempre e comunque "condannati alla qualità". Il 3 marzo 1964, Zhou Enlai piantava personalmente il primo ulivo cinese in un terreno di Haikou, Yunnan. Il premier già intuiva i benefici dell’olio d’oliva e importò personalmente diecimila piantine dall’Albania, allora Paese più che fratello. Mica ci condivano l’insalata, i cinesi del tempo: l’olio trovava una sua collocazione di nicchia come ingrediente di cosmetici, prodotti per la salute e medicinali.
Oggi, l’ulivo occupa circa ventimila ettari, soprattutto in Sichuan e Gansu, e pur non essendoci troppi dati al riguardo, è intuibile che il consumo si sia spostato sull’alimentare dove, secondo stime, esisterebbero circa 20 milioni di potenziali consumatori.
Le importazioni di olio d’oliva in Cina nel 2013 hanno raggiunto 171,822 milioni di dollari con un tasso di crescita del 13 per cento rispetto all’anno prima. È un dato che giunge alla fine di un progresso costante (151.803 nel 2012, 131.493 nel 2011), con incrementi superiori al 10 per cento annuo.
Quella dell’olio è una storia esemplare: spiega alla perfezione quali siano i limiti e le opportunità delle imprese italiane in Cina. Perché se in origine, nei primi anni Duemila, ai blocchi di partenza c’erano Italia e Spagna, oggi il mercato cinese è soprattutto cosa iberica.
Siamo stati alla pari come fatturato per sei-sette anni – fino al 2008-09 – e ognuno metteva in gioco quello che aveva.
La Spagna aveva dalla sua la quantità e la capacità commerciale senza pari di grandi gruppi, che possono anche avvantaggiarsi con tecniche di pagamento dilazionate. L’economia di scala e l’utilizzo di olive dall’alta resa (ma dalla qualità non fenomenale), ha quindi permesso a Madrid di vendere olio a 60-70 yuan al litro.
L’Italia, da parte sua, metteva invece in gioco la grande qualità (almeno percepita). Come in altri settori, come sempre.
È il celebrato “brand Italia”. "Siamo condannati alla qualità", dice Antonino La Spina, direttore dell’ufficio Ice di Pechino.
Le nostre piccole imprese riuscirono quindi a sfondare sul fronte extravergine, vendendo a 150 al litro o addirittura 250. Fino al 2008, nonostante l’olio spagnolo occupi la gran parte degli scaffali al supermercato, l’Italia tiene nei fatturati in virtù della qualità e dei prezzi superiori. C’era già un consumo di fascia alta che garantisce un testa a testa nei ricavi.
Il sistema non regge più con la massificazione. Il punto di svolta si ha infatti con l’aumento dei consumi. Perché lì arrivano altri concorrenti. Si inserisce per esempio anche la Grecia, che dal 2004 gode di sempre maggiore popolarità in Cina grazie al passaggio di consegne tra le olimpiadi di Atene e quelle di Pechino e per i sempre maggiori interessi cinesi in Grecia: nel 2013 vende 10,319 milioni di dollari e ormai è collocata stabilmente al terzo posto.
Di fatto, con l’aumento del consumo, le autorità doganali cinesi cominciano a controllare sempre più il prodotto, a farsi una cultura e a riconoscere le irregolarità, come l’utilizzo della clorofilla per colorare l’olio di semi; o come il ricorso, da parte di alcuni di produttori di miscele tra olii di varia provenienza, fatto non irregolare in sé, ma che trasmette a un pubblico inesperto come quello cinese l’idea di “non purezza”.
Ed ecco l’autogol all’italiana. Nel 2011, un’inchiesta della Guardia di Finanza e delle nostre autorità doganali sull’olio dei maggiori produttori italiani scopre che su cinque bottiglie quattro contengono olio miscelato (con olii tunisini greci, spagnoli e marocchini) e getta discredito sul Paese.
A questo punto, la Spagna decolla mentre l’Italia – che giocava tutto il suo status proprio sulla qualità – resta al palo. Un certo beneficio ne trae anche la Tunisia, che entra in gioco e si piazza quinta nel 2013 con 4,125 milioni di dollari. Dato che l’olio tunisino è comprato dal’Italia per miscelare i propri olii, a questo punto la strategia del Paese nordafricano è quella di dire ai cinesi: “Beh, venite direttamente a comprarlo qui”, e così si ritaglia uno spazio. Al quarto posto c’è l’Australia, con circa 5 milioni di dollari nel 2013.
Ecco dunque la classifica in milioni di dollari degli ultimi tre anni e per le prime tre posizioni.
2011: Spagna 77,176 – Italia 29,760 – Grecia 8,075
2012: Spagna 92,080 – Italia 29,554 – Grecia 11,579
2013: Spagna 107,207 – Italia 35,674 – Grecia 10,319.
Il mercato è oggi orientato a un prodotto di prezzo medio, a differenza del vino, dove resistono i grandi marchi. Di fatto, il vino è destinato al consumo individuale ed è appannaggio di un consumatore di ceto medio-alto che lo beve anche per questioni di status, di esibizione, mentre l’olio è destinato soprattutto alla ristorazione: "Si decide nel segreto della cucina – dice La Spina – non c’è quindi il valore d’etichetta, tranne che nei ristoranti italiani. Può darsi che un giorno si arrivi anche a questo livello per l’olio, è sicuramente una strategia su cui lavorare".
L’olio spagnolo continua a vendersi a metà prezzo rispetto a quello italiano. La Spagna è il produttore numero uno al mondo per quantità, ha un eccesso di olio e quindi deve trovare sbocchi di mercato. Riduce i propri margini pur di vendere, può fare politiche aggressive sui prezzi. Oltre a grandi produttori ha anche grandi distributori e quindi può avvantaggiarsi dell’economia di scala in tutte le fasi del processo. Ma soprattutto, le grandi imprese spagnole dialogano direttamente con i grandi distributori cinesi, quindi non sono legate ai singoli ordini e possono fare politiche con prospettive di lungo termine.
Il vero “balzo in avanti” della Spagna si ha infatti con l’allargamento del mercato alle città di seconda e terza fascia, dopo l’iniziale concentrazione a Shanghai, nello Shandong, a Guangzhou e a Pechino. A quel punto, il legame tra i grandi produttori spagnoli e i grandi distributori cinesi mostra la sua potenza, garantendo una presenza capillare dell’olio iberico. Gli altri non sono riusciti a stare al passo.
Tuttavia, il dato nuovo del 2014 è un calo delle importazioni del 26,78 per cento: i dati a ottobre rivelano che la Spagna perde il 33,11, l’Italia il 25,50, la Grecia il 36,27. C’è una sola, vera, ragione per questo calo: la campagna anticorruzione lanciata dal presidente Xi Jinping oltre due anni fa. Il boom dell’olio spagnolo era infatti coinciso con l’utilizzo del prodotto come regalo. “C’era chi, senza capirci niente, regalava anche due-tre mila euro di olio, un mercato indotto”, spiega La Spina.
Non trattandosi di un mercato evoluto, però, non essendoci ancora un pubblico di conoscitori esperti, il regalo riguarda il prodotto del Paese più conosciuto a livello di massa. Un po’ come per il vino. E se il vino, in Cina, è per definizione francese, l’olio è per definizione spagnolo.
La nobilitazione era coincisa con il boom del packaging. Banali olii europei vengono messi in confezioni extralusso da importatori e distributori cinesi. “Ci sono stati produttori che si sono visti nobilitare il proprio olio dagli importatori cinesi così tanto da guadagnare più dal packaging che dal normale mark up”, spiega La Spina. “Non sapevano più come ringraziare i loro partner di qui”.
La campagna anticorruzione azzera però questo benefit.
Ora, i dati sono ancora provvisori, ma l’Italia sembra soffrire di meno la campagna anticorruzione e la Tunisia addirittura aumenta la propria fetta di mercato: perché? Una spiegazione potrebbe essere che l’olio italiano sia più legato alla ristorazione che all’”ostentazione”, mentre quello tunisino – nella sua nicchia – non sia considerato assolutamente un olio regalo e quindi non soffra la campagna anticorruzione.
Italia e Grecia (per non parlare degli altri produttori) non possono tuttavia competere con la Spagna sul livello quantitativo e di potenza commerciale.
Certo, l’online è destinato a facilitare i compiti per molti. Giovano per esempio gli “eventi” creati da Alibaba. Il 12 dicembre, il gigante di Jack Ma ha creato l’evento "12/12", selezionando i prodotti tipici di diversi Paesi, tra cui l’olio, in una grande vendita promozionale. In questo caso il problema diventa però la quantità, perché ci vogliono vasti stock disponibili per soddisfare la domanda online. E si torna ai problemi dei piccoli produttori di fronte ai giganti spagnoli.
“La vendita su internet è comunque alternativa al mercato classico”, spiega Emmanuel Stantzos – addetto commerciale dell’ambasciata greca a Pechino – "perché i distributori cinesi non vogliono trovare lo stesso prodotto che piazzano in negozio su internet e a un prezzo inferiore". È già successo, così chiedono l’esclusiva, ma lo fanno esclusivamente per tutelarsi e non offrono un granché in cambio.
Insomma, i concorrenti della Spagna non possono che fare leva sulla qualità. L’olio non è un prodotto dove si può agire troppo sui fattori di produzione per aumentarne la resa, Grecia e Italia restano produttori limitati quantitativamente.
Per il futuro sarà quindi sempre più importante lavorare su un mix tra gusto, sicurezza alimentare e benefici per la salute. “In Cina, a livello di consumo d’élite, bisognerebbe per esempio far eleva sull’altissima percentuale di polifenoli presenti nell’extravergine di qualità superiore. Quasi una medicina”, dice La Spina.
La frontiera, con la Spagna destinata a divorare sempre più il mercato in termini quantitativo, è per gli altri player quella di conquistare la fascia più alta: valore aggiunto per unità di litro.
"Bisogna far capire al mercato cinese che all’interno del mercato olio d’oliva esiste l’olio extravergine e che all’interno degli extravergini ci sono diversissimi livelli, che dipendono da variabili di tutti i tipi: dalle tecniche di produzione alla varietà delle olive", dice ancora La Spina. "Qualità non significa necessariamente qualità dell’oliva greca o italiana. È soprattutto qualità dei processi produttivi, quelli che offrono sicurezza alimentare".
La Cina è il Paese con la più antica tradizione culinaria al mondo; con la crescita del ceto medio, è parere diffuso che in prospettiva andrà in direzione della qualità, soprattutto per il segmento alto di mercato.
Una difficoltà è però quella di creare figure professionali adatte a un mercato d’élite: i cosiddetti food&beverage quality manager cinesi, perché i piccoli produttori europei (Spagna a parte) non sono in grado di sostenere i costi di una propria struttura in loco. O meglio: possono riuscirci se fanno sistema, cioè se creano piattaforme composte da diversi piccoli produttori con il sostegno dei propri governi e delle istituzioni commerciali. E qui si apre un altro capitolo.