La risposta all’insostenibilità del modello economico corrente è nella sharing economy. Almeno questa è la convinzione che si va diffondendo in Europa e in Italia, dove Expo 2015 sta accellerando notevolmente il dibattito sulle nuove forme di economia. Intervista a Simone Cicero, esperto di sharing economy appena tornato dall’International Industrial Design Fair (SZIDF) di Shenzhen.
A parte qualche difficoltà a delimitare gli ambiti operativi del variegato mondo dell’economia partecipativa, nel suo matrimonio con le nuove tecnologie, in questo insieme di nuovi servizi si intravede la possibilità di uscire dal buco nero della stagnazione economica, ridiscutendo i tradizionali parametri tipici delle transazioni economiche e ristabilendoli su nuove basi. Parole d’ordine di questa nuova onda sono: partecipazione, collaborazione, condivisione, ridiscussione. Non esattamente il mantra che regola le relazioni economiche e non nella Cina contemporanea, in un contesto economico che poco condivide con l’occidente, seppure ne sia profondamente collegato.
Eppure la nuova economia esiste in Cina e non è una novità. A parte gli ovvi rimandi al modello maoista tutto comuni, ciotole di riso e servizi “from the cradle to the grave”, e l’immancabile tradizione confuciana spesso citata a sproposito, i rimandi vanno direttamente al discorso avviato dal Wen Jiabao e Hu Jintao sulla società armoniosa e lo sviluppo scientifico che a loro volta si salda al paradigma dell’economia circolare o xunhuan jingji, termine coniato dall’economista Bulding negli anni sessanta, per designare un’ economia a circuito chiuso che, per tutto il corso dell’utilizzo delle risorse, dalla produzione, al consumo fino allo smaltimento del prodotto, converte l’incremento lineare dell’utilizzo tradizionale delle risorse in uno sviluppo basato sul ciclo ecologico delle risorse ed entrata già nell’Undicesimo piano quinquennale (2006-2011) come uno dei pilastri a cui si doveva ispirare la politica di sviluppo economico cinese.
Queste le basi teoriche, ma a che punto sta la sharing economy nella pratica in Cina? C’è qualcosa di paragonabile alle esperienze occidentali, a parte il solito Alibaba? A darcene uno spaccato Simone Cicero è un insider,esperto di sharing economy e fresco relatore all’International Industrial Design Fair (SZIDF) tenutasi la scorsa settimana a Shenzhen, una vetrina alla seconda edizione voluta dal Ministero dell’industria e dalla municipalità della città e dove si è parlato dei trend emergenti nel mondo del design industriale e dell’economia in generale, sostenibilità compresa.
“Ho tenuto un workshop di platform design – fortemente incentrato sulla progettazione di marketplace peer to peer – e devo dire che, almeno dalle domande che i presenti mi hanno proposto, sembra che, al di là di qualche evidente differenza, la comprensione delle opportunità dell’economia collaborativa e in particolare le opportunità di monetizzazione che nascono dalla cosidetta Sharing Economy sia piuttosto chiara anche ai cinesi”.
Può un business model del genere funzionare in Cina, dove sebbene sia lontani i tempi della crescita a due cifre, ci si trova comunque in un’economia in crescita? Le opinioni a tale riguardo sono contrastanti. C’è chi come Rifkin, prefigura un ruolo centrale della Cina nella terza rivoluzione industriale e sostiene che entro il 2050, la sharing economy si sarà definitivamente saldata all’economia cinese, in un sistema economico “in parte capitalista e in parte condiviso”. E chi ci vede ancora troppi ostacoli culturali, tra i principali: la poca propensione a fidarsi degli sconociuti che non appartengano alla propria rete di guanxi, il costo irrisorio e la disponibilità capillare che alcuni tipi di servizi (come i taxi) nelle grandi città cinesi, e quel rapporto con il consumo, esercitato da molti come pratica di distinzione sociale.
Ma anche qui più che le opinioni contano le esperienze. ATzuche e Tujia, rispettivamente le versioni cinesi di Uber e Airbnb, si stanno diffondendo, insieme a tante altre: Xiami, per la condivisione di musica o 5sing per il karaoke e ancora versioni più locali. Ovviamente sarà cruciale il ruolo del governo – in termine di policies – commenta Cicero “Difficile diventare leader da dietro un muro” anche se si tratta della Grande Muraglia.
*Nicoletta Ferro si è occupata delle dinamiche politiche e aziendali legate alla sostenibilità, prima come senior researcher presso la Fondazione Eni Enrico Mattei a Milano, in seguito per 7 anni da Shanghai. Oggi è ricercatrice presso il CRIOS (Center for Research in Innovation, Organization and Strategy) dell’Università Bocconi e responsabile dello sviluppo asiatico di GOLDEN (Global Organizational Learning and Development Network) for sustainability, un network di ricerca globale sui temi della sostenibilità.
Esperta di sostenibilità sociale e ambientale. Si è formata nel mondo della ricerca accademica (prima alla Fondazione Eni e in seguito all’Università Bocconi) ed é arrivata in Cina nel 2007. Negli anni cinesi ha lavorato come consulente e collaborato con diverse testate italiane online quali AgiChina e China Files per le quali ha tenuto il blog La linea rossa e la rubrica Sustanalytics oltre a curare il volume “Cina e sviluppo sostenibile, le sfide sociali e ambientali del XXI secolo, L’Asino d’oro (2015). Dopo una parentesi nel settore privato come Communications & Corporate Affairs Manager in Svizzera, é rientrata in Italia e ora vive a Milano.