Terza e ultima puntata di un lungo articolo (leggi 1/3, leggi 2/3) che ripercorre la storia e le sfide del cinema indipendente cinese. In questa terza parte i temi la nascita e la sparizione ad uno ad uno dei festival di cinema indipendente. La Cina è in potenza il più grande mercato di biglietti al mondo. Riuscirà a produrre anche film indipendentei e alternativi? [Segue]
Fino al 2012 queste meraviglie filmiche potevano sperare di essere mostrate nelle maggiori città cinesi grazie ad una manciata di Festival, organizzati da un’altrettanta manciata (lungimirante) di intellettuali, da cui passava la miglior produzione di sempre. Tutti i nomi di cui sopra hanno avuto un esordio importante in questi festival e in queste occasioni si sono avvantaggiati non solo di un confronto con il pubblico, ma anche dell’occasione di consolidare il cerchio dei filmmaker, un altro dei problemi a cui la Cina va incontro. Poiché infatti, tanti sono coloro che risiedono a Pechino, ma altrettanti quelli dispersi su questo vasto territorio che hanno la necessità di costruire una rete per rendere più solide le basi della loro opera. Ecco, i Festival supplivano alla mancanza dei circoli e circumnavigano l’assenza di luoghi di aggregazione (i quali, naturalmente, in Cina sono proibiti). I più importanti sono sicuramente stati il Chongqing Independent Film and Video Festival, il Beijing Independent Film Festival, lo Yunnan Multiculture Visual Festival (Yunfest) e il China Independent Film Festival (CIFF). Perché uso il tempo passato nel riferirmi a questi eventi? Perché tra i festival citati, solo uno è sopravvissuto: gli altri, in momenti alterni, sono tutti incorsi nella ghigliottina governativa e tra avvisaglie più o meno dirette, tra il 2011 e il 2014 è stata fatta piazza pulita. Ma facciamo un passo indietro.
È il 2007 e nell’area di Chongqing, una zona estremamente prolifica in termini artistici sebbene parzialmente decentrata dalle rotte principali, nasce quello che in principio era stato chiamato Grass Roots Film Festival, ma che poi diventa Chongqing Independent Film and Video Festival: il legame con il cinema degli esordi è indiscutibile. L’evento guadagna terreno, i numeri aumentano, subentra tra gli organizzatori anche Ying Liang che già dal 2005 aveva iniziato a vantare una certa credibilità nel settore dopo le vittorie dei suoi primi film. L’ingresso di questo nome nello staff consente al festival di avere accesso ad appoggi e sponsor di sostegno: prende forma una collaborazione con il Festival di Rotterdam, fanno capolino alcune forme acerbe di crowdfunding dedicate a tre prodotti corti – un finanziamento dal basso che già al tempo era decisamente all’avanguardia, considerato che ad oggi, ancora, non esistono piattaforme di crowdfunding dedicate al cinema indie in Cina -, e si arriva addirittura ad un programma di circa 80 titoli alla sola quinta edizione. Ospiti internazionali (tra cui il thailandese Apichatpong Weerasethakul) rendono lo scambio ricco e la platea nutrita. Forse, un po’ troppo. L’anno seguente è il momento del crollo: Ying Liang è costretto a lasciare la Cina e vengono a mancare una serie di appoggi che prendono le distanze dal festival da lui sostenuto. Inoltre, poiché l’attività già un po’ troppo viva porta indiscutibilmente la firma di un reietto, il passo verso il baratro è breve e il festival incontra la sua fine.
Dopo l’evento di Chongqing, è lo Yunfest a cadere nella morsa del Governo. Lo Yunnan Multiculture Visual Festival esisteva dal 2007 con attività precedenti che risalgono sin al 2003: una longeva vita che si è interrotta nel 2013. C’è una porzione del web che sostiene che un documentario in particolare abbia stuzzicato oltremodo la parte governativa spingendola ad interrompere una volta per tutte l’evento del sud della Cina: si tratta di Though I am gone (2006), firmato proprio da Hu Jie, sopra citato. Il suo racconto del dilagare rapido della violenza al principio della Rivoluzione culturale è una fotografia densa di emozioni di un passato ancora tormentato: nello specifico, è dal racconto ricco di dettagli degli ultimi giorni di vita di Biang Zhongyun, testimoniati in particolare dal marito Wang Jingyao che di quella disgrazia ha tenuto traccia e testimonianza per far sì che non si dimentichi. Qualunque sia la ragione che ha causato la fine dell’esistenza di quest’altro festival, nel 2013 la Cina perde il secondo palcoscenico di proiezione delle produzioni indipendenti; dopodiché iniziano le noie per i colleghi di Pechino e Nanchino.
Era il 2006 quando Li Xianting, un lungimirante intellettuale e critico artistico che ha rappresentato molto per la diffusione dell’arte cinese nel mondo, diede vita ad una Fondazione a suo nome. Lo scopo era quello di aiutare i giovani filmmaker; la prima imponente attività della Fondazione fu quella di concretizzare un’idea che con Zhu Rikun (regista e produttore militante) era stata elaborata, cioè il dare una opportunità concreta di diffusione al cinema esordiente. Era già qualche anno che i due organizzavano appuntamenti di proiezioni in giro per la capitale, sotto il nome di Exchange Week of Independent Films. Forte era in loro la convinzione che ci fosse la necessità di stabilire un punto di incontro non solo con il pubblico ma anche tra gli operatori del settore. È ciò che diventerà il Beijing Independent Film Festival, almeno fino al 2011, anno in cui è avvenuto quello che Wang Hongwei ha giustamente definito come il crackdown per il Cinema Indie: ciò che il Governo aveva fino a quel momento tollerato e lasciato crescere viene lentamente, di anno in anno, trattenuto fino al totale soffocamento. È infatti nel 2011 che iniziano per l’appuntamento pechinese i primi grattacapi: lo sgombero dei circa 500 partecipanti, l’interruzione della corrente elettrica – una pratica che si è poi ripetuta negli anni seguire, mentre le sedi venivano continuamente variate nel tentativo di rendere meno forte, di facciata, l’influenza del festival -. Ma il festival ha resistito. Almeno fino all’agosto 2014, quando la polizia in borghese ha fatto irruzione e sgomberato ufficialmente l’evento. La Fondazione è stata perquisita e l’intero database di anni di sostegno all’indipendente, requisito dalle forze dell’ordine: è la fine dell’alternativa indie nella capitale.
Ad oggi, non rimane che il China Independent Film Festival, un evento che ha sede a Nanchino e che, come i fratelli di cui sopra, si è concretizzato a partire da una serie di proiezioni spot in giro per la città. Ciò che spinse gli organizzatori Cao Kai, Zhang Xianmin e Zhang Yaxuan, nel lontano 2004, era ancora una volta la volontà di creare un hub: oramai la consapevolezza che la sola produzione di film non fosse sufficiente a creare una tradizione cinematografica, ma che ci volesse anche un corrispettivo pubblico, era radicata. Diversamente dai colleghi, il festival di Nanchino ha coscientemente mantenuto un profilo piuttosto basso nel tempo, nel tentativo (disperato?) che una sottospecie di autocensura alla sorgente potesse evitargli di incappare nei problemi che gli altri festival non hanno potuto evitare. Tanto per chiarire, i film di Hu Jie non hanno mai partecipato a Nanchino, sebbene è qui che egli risiede; e se interpellato direttamente al riguardo, risponde che lui è il primo a sapere che non è il caso di somministrare al CIFF i propri film, col rischio di mettere nei guai tutto l’evento. A proposito di censura alla fonte.
Tuttavia, c’è chi addita il CIFF di lavorare in direzione esattamente di ciò che il Governo cerca quotidianamente di imporre ovunque: ovvero una certa omogeneizzazione dei contenuti, dovuta ad una selezione dei temi che, d’altra parte, è ciò che ha permesso a Nanchino di sopravvivere fino adesso. O meglio, di resuscitare dopo lo stop forzato del 2012. Sì ecco, perché nel 2012 a pochi giorni dall’inizio, la disponibilità delle sale di proiezione coinvolte è venuta improvvisamente a mancare, dalla sera alla mattina: magia del potere governativo. L’edizione superstite del 2013 sembrava fosse nel mezzo di un lungo e difficile processo di riabilitazione dopo un incidente quasi mortale, aspettando il momento opportuno per rientrare in gioco.
Tirare le somme
Non è che interrompendo anche questo evento la gente smetterà poi di fare film: no, decisamente il problema non è questo. I cineasti sono una razza testarda e soprattutto impavida, la loro opera continuerà a perseverare. La questione è piuttosto quella che riguarda il pubblico, quella massa eterogenea che negli ultimi anni, con un particolare incremento negli ultimi tre circa, è stata educata a pane e blockbuster. Vede una televisione edulcorata e ammorbidita nei toni e nei temi, contenuti filtrati, masticati, digeriti e rimuginati. Non si accede ad una informazione super-parte e mancano gli stimoli per la ricerca di qualcosa di originale, diverso, eccentrico. Ecco, i festival servono proprio a questo: a selezionare ed offrire un’alternativa a quel processo di uniformazione cinematografica che il Governo ha in atto e che non salva i registi piccoli, figuriamoci quelli “scomodi”.
Esiste naturalmente ancora una densa fetta di pubblico che cerca in autonomia film che siano altri, ma chiaramente non è così immediato accedere a queste pellicole: fortunatamente per questi spettatori, un po’ meno per l’industria in termini classici, esiste un mercato pirata dai confini incalcolabili. I negozi di DVD smerciano qualunque film, quelli passati in sala e quelli che non ci arriveranno mai. Se poi il commerciante è una persona davvero appassionata, rischia pure su titoli la cui esistenza andrebbe nascosta. E ciò che non si trova su supporto fisico, si può sempre cercare online.
Ma, quel fondamentale lavoro di connessione tra filmmaker e pubblico in queste visioni militanti e lontane dalle sale, viene a mancare. Il dialogo è più sterile e magari ridotto a proiezioni semi-private (fino a quando anche queste non verranno considerate affare di Stato) o alla comunicazione sui social. Collateralmente, ciò che rischia è la formazione dei filmmaker stessi, che tanto guadagnano dall’incontro con i colleghi e con il pubblico, e su cui si era investito fino al 2013: con i festival si sono persi alcuni dei suoi più importanti bastioni. Abbattuti da un attacco che sa perfettamente su cosa mirare.
Tuttavia, i successi in loco di certi film di Middle Class, e quel sostegno gratuito che la critica internazionale sta regalando al cinema cinese di questi anni, è la dimostrazione che una nicchia di pubblico ha bisogno di una offerta altra rispetto ai comic movie americani (sebbene poi Transformers 4 ancora faccia esplodere il botteghino con 300 milioni di dollari di incasso). E, d’altro canto, che pure l’audience internazionale è interessata a queste voci alternative, ha voglia di scoprire la Cina che vive dietro la facciata della super potenza, lontana dalle patinate immagini di Shanghai e Pechino, nelle periferie e nella campagna. E’ un pubblico che ama la criticità del punto di vista che questi autori Middle Class esprimono, che ama le storie semplici e allo stesso tempo dense e problematiche che solo la narrazione cinese è capace di presentare.
E’ in corso un passaggio fondamentale nella storia della cinematografia cinese, che si lega indissolubilmente anche con gli eventi sociali e politici. Il report che il cinema fa di questa attualità è, tautologicamente, estremamente contemporaneo e ci dona una rappresentazione più completa di una potenza che in breve, guiderà il clima cinematografico delle nostre sale. La Cina è in potenza il più grande mercato di biglietti al mondo e il fatto che produca anche un cinema alternativo, preserva tutti quanti dal rischio che il futuro della distribuzione internazionale ci sciroppi solo film wuxia o commedie politically correct. Per quanto i calci e i pugni volanti esercitino un fascino irresistibile, non è solo questa la Cina che incuriosisce e che merita di essere cercata, guardata e compresa.
*Rita Andreetti nasce a Ferrara nel 1982. Si è occupa attivamente di cinema indipendente in Italia anche tramite il portale Indipendentidalcinema.it. Scrive per la rivista Taxidrivers.it e per FareFilm.it di cinema asiatico e cura un blog per Vanity Fair in cui racconta della sua esperienza: cineserie.vanityfair.it. Sogna un giorno di poter parlare cinese correntemente e distribuire film italiani a questo immenso pubblico.