Quando nel 1942 il cino-peruviano Erasmo Wong aprì una piccola bottega d’angolo in Avenida Dos de Mayo, nel quartiere residenziale di Lima San Isidro, nessuno si aspettava che quarantuno anni dopo da quel bugigattolo sarebbe nata la catena di supermercati più famosa del Perù. Poi, nel 2007, la Wong si svendette per 500 milioni di dollari ad un gruppo cileno e fu l’inizio di un progressivo declino. Reportage in due puntate dal Perù.
La parabola di Wong affonda le radici in una migrazione antica. Tutto è cominciato con una piccola comunità asiatica presente sul territorio dal XVII secolo, quando il commercio di schiavi scorreva lungo una rotta quadrangolare che partiva dalla colonia portoghese di Macao, passava per mani spagnole a Manila, rimbalzava ad Acapulco per poi finire nel Paese andino. Verso la metà del 1800, mentre in Perù -fresco di liberazione dal giogo spagnolo- la schiavitù diventava illegale, i cinesi venivano ancora spediti nelle piantagioni di zucchero e nelle miniere di guano per sopperire alla mancanza di manodopera locale.
Negli anni ’30 spuntarono le prime "bodegas" per l’importazione di prodotti dalla Repubblica popolare, accenni di una piccola imprenditoria cino-peruviana. Dieci anni dopo, i discendenti degli schiavi erano ormai talmente integrati che, temendo per la "cinesità" dei propri figli, decisero di aprire le prime scuole per impartire alle nuove generazioni miste un’educazione tradizionale. Oggi i tusan (dal mandarino tu sheng: nati sul posto) parlano spagnolo, il quechua oltre a vari dialetti cinesi; si aggirano sui 5 milioni, contando almeno per il 10 per cento della popolazione locale. Numeri che rendono quella del Perù la comunità cinese più consistente di tutto il Sudamerica. I primi cinesi arrivarono da "coolies", gli ultimi da piccoli imprenditori, ristoratori, magnati degli idrocarburi, saccheggiatori di miniere.
La Cina in Perù è ovunque, basta scovarla. E’ nelle strade del centro storico di Arequipa, la "città bianca", dove, tra gli edifici in sillar, piccoli locali espongono l’insegna con su scritto "chifa", termine che ricalca quel "chifan" verbo "mangiare" in mandarino, a cui è caduta la "n". Spesso senza che un solo carattere cinese o una lanterna rossa preannunci agli avventori le origini asiatiche di ciò che si accingono a consumare. Oggi il riso abbonda sulle tavole dei peruviani, più di quanto non faccia la quinoa, "la madre di tutti i semi", come la chiamavano gli Inca. Motivo?
"Il riso costa quasi la metà, 2 soles al chilo (circa 5 centesimi di euro) contro i 3,50 soles della quinoa", ci spiegano al mercato di Arequipa. A introdurlo, insieme alla salsa di soia e allo zenzero, furono gli immigrati cinesi nel XIX secolo, oggi invece viene importato per il 95% dall’Uruguay. La scarna produzione nazionale è tutta concentrata lungo la costa e sul "sopracciglio della foresta", anticamera dell’Amazzonia. Mentre a circa un’ora di macchina dalla cittadina di Cusco, centro nevralgico del turismo internazionale, alcuni anni fa una fattoria per la coltivazione sperimentale della patata è nata dalle ceneri di un mercato di villaggio grazie a capitali cinesi e manodopera peruviana.
Scarsi 300 chilometri di strada collegano la "città bianca" al lago Titicaca, sfiorando la dorsale andina. Quando la scarsità di ossigeno comincia ormai a dare alla testa, un cartello di colore verde segnala il punto più elevato: il passo di Crucero Alto, 4528 metri. La Cina è anche lì. Donne del posto accucciate sul ciglio della strada vendono prodotti locali, maglioni, cuscini, coperte, golf in sedicente lana di alpaca e vigogna. I pezzi migliori "te li spacciano per ‘baby alpaca’, ma noi li chiamiamo ‘maybe alpaca’", ci spiega una guida locale, "molti sono ormai fatti in Cina o a Juliaca, la patria del made in China peruviano. Nel giro di qualche anno, inevitabilmente, i falsi distruggeranno la nostra tradizione tessile."
Juliaca, la "città dei venti", meglio nota tra i locali come "la città più brutta del Perù", è un’accozzaglia di casupole in mattoni mai finite e vicoli polverosi, nel Sud della regione di Puno. Passerebbe facilmente inosservata se non fosse che: 1) è passaggio obbligato per chi vuole raggiungere in macchina Cusco dal lago Titicaca; 2) è il principale snodo del narcotraffico tra Perù e Bolivia; 3) è spesso protagonista delle cronache nazionali per proteste e arresti collegati alle miniere illegali di oro.
Dalle miniere illegali alla responsabilità sociale d’impresa
Il distretto di Puno si estende per quasi tutta la sua interezza 4000 metri sopra il livello del mare, dove l’altitudine raddoppia lo sforzo fisico. Immaginarsi sotto terra. Puno ospita il 17% delle miniere informali del Paese, secondo soltanto alla selvaggia regione di Madre de Dios (70%), al confine con Bolivia e Brasile. Stando a quanto riportava lo scorso dicembre l’International Business Times, i ricavi derivanti dalla estrazione illegale di oro hanno toccato i 3 miliardi di dollari, superando del 15% i profitti derivanti dal traffico di cocaina, di cui il Paese andino è dal 2012 il primo produttore a livello globale. Si stima che la produzione illegale copra ormai il 20% delle esportazioni di oro peruviano con costi ambientali altissimi.
L’uso indiscriminato di mercurio per la fusione dell’oro porta al rilascio nell’ambiente di altissime quantità del metallo tossico allo stato liquido e gassoso, per un totale di 105 tonnellate all’anno, di cui il 70% nel Mid South (General Direction of Environmental Health, 1996). Stando a uno studio pubblicato sulla rivista scientifica PLoS ONE, lo sfruttamento delle foreste per scopi estrattivi, è aumentato annualmente dai 292 ettari del periodo 2003-2006 ai 1915 ettari del periodo 2006-2009. Significativamente, questo è avvenuto in congiunzione con un incremento annuo del 18% del prezzo dell’oro.
Lungo la strada che collega Puno alla cittadina di Cusco, una periferia di catapecchie e tetti in lamiera rompe la continuità del paesaggio bucolico che dal lago Titicaca si estende a perdita d’occhio verso Nord. I campi alle porte di Juliaca sono deserti. "Soltanto alcuni giorni fa qua c’era l’inferno", racconta una guida locale indicando il profilo ondulato di arenaria rossa alle nostre spalle. "I contadini erano di nuovo in sciopero. Ancora le miniere informali".
Le miniere informali/artigianali, una piaga che affligge alcune aree delle regioni centrali e meridionali, sfruttate sin dall’epoca coloniale, ma dove non sono mai stati promossi investimenti su larga scala. A volte invece si tratta di depositi abbandonati da società minerarie per problemi di redditività, o zone in cui le riserve, pur essendo di alta qualità’, non sono sufficienti a giustificare gli alti costi necessari al loro sviluppo. Il business delle miniere informali ha raggiunto la sua massima espansione tra gli anni ’70 e l’inizio degli anni ’90 del secolo scorso, quando il boom industriale lungo la costa e le incursioni terroristiche sferrate sulle montagne dal movimento d’ispirazione maoista "Sendero Luminoso" innescarono flussi migratori sparsi, sradicando i contadini dal loro luogo d’origine.
A quanti si erano lasciati una vita alle spalle lavorare nelle miniere illegali sembrò una buona soluzione per ricominciare da capo. Un abbaglio. I più fortunati hanno ottenuto dei "permessi", ma non la lunga lista di documenti necessari a formalizzare definitivamente l’attività di estrazione. I meno fortunati lavorano in condizione di schiavitù senza ricevere nemmeno un compenso. All’inizio degli anni 2000 lo stipendio di un minatore artigianale si aggirava intorno ai 200 dollari al mese, quasi il doppio del minimo vitale di Lima (117 dollari al mese), ma solo leggermente al di sopra della soglia della povertà stimata intorno ai 170 dollari per una famiglia di 5 persone.
Spesso l’occupazione illegale delle terre a scopo estrattivo si rivela controproducente per i minatori stessi; sfocia in una produzione disordinata, costringendo gli "abusivi" a invadere sempre nuovi e più ricchi territori. Può succedere, poi, che le aree illegalmente occupate vengano reclamate dai legittimi proprietari, così che ai minatori artigianali non resta che accettare un accordo (quasi sempre sconveniente) con il detentore della concessione. A farne le spese sono sopratutto i gruppi sociali più deboli come donne e bambini, finiti a lavorare nelle miniere per contribuire al reddito familiare. Non di rado le miniere informali diventano uno specchietto per le allodole, una copertura per la tratta di esseri umani e il traffico di stupefacenti. Statistiche citate dal MMSD (Mining, Minerals and Sustainable Development) nel 2001 calcolavano il coinvolgimento di 20mila-30mila famiglie nel settore estrattivo artigianale, quasi la metà della manodopera impiegata nelle miniere formali.
Oggi si contano 40mila cercatori di oro illegali e 30mila miniere informali soltanto nella provincia di Madre de Dios. Ma il giro d’affari è molto più ampio e coinvolge proprietari delle concessioni, intermediari che comprano e rivendono oro ("acopiadores"), e fornitori di ricevute false per il metallo prodotto illegalmente ("facturadores"). Al vertice della piramide siedono i "gold capos": clan familiari, gangli mafiosi, politici e consorzi stranieri. Sono loro ad accaparrarsi i guadagni a nove zeri accumulati prevalentemente attraverso i lavori forzati e lo sfruttamento minorile, aggirando i regolamenti a suon di mazzette e minacce.
Un’indagine condotta lo scorso anno da Verité, Ong che monitora gli abusi sul lavoro, ha rilevato lo sfruttamento di lavoratori locali (compresi bambini) da parte di gruppi armati russi, sudcoreani, brasiliani e cinesi, spalleggiati da "guardie peruviane con formazione militare". "Molto peggio di quanto ci aspettassimo", questo il commento di Quinn Kepes, autore del rapporto. "Abbiamo fatto ricerche sul lavoro forzato in Bangladesh, Guatemala, Bolivia, Liberia e Stati Uniti, ma personalmente non ho mai visto una cosa del genere". A Quience Mil, nella regione di Cusco, dove generalmente la popolazione è meno vulnerabile ai lavori forzati rispetto a Madre de Dios, Verité ha raccolto testimonianze di lavoratori peruviani ed ecuadoregni schiavizzati da gang criminali cinesi.
Secondo l’identikit emerso dai racconti delle vittime – e confermato dal Ministero del Lavoro – si tratta di immigrati provenienti dalla Repubblica popolare, affiancati da milizie private cinesi e peruviane. Danarosi, ma refrattari all’uso di tecniche avanzate, preferiscono avvalersi di metodi più economici ma estremamente rischiosi, come l’utilizzo di esplosivi da mina per perforare la roccia senza dispositivi di protezione individuale o la supervisione di ingegneri specializzati. Spesso operano di notte per non dare nell’occhio.
Sebbene la legge peruviana non permetta ai privati stranieri di ottenere concessioni minerarie, sembra che questi boss siano riusciti ad aggirare i divieti attraverso deleghe e ad adescare i lavoratori con l’inganno. O semplicemente puntando loro una pistola alla testa. Cinque sono stati catturati durante una spedizione punitiva, ma molti altri sono ancora rintanati sulle montagne di Cusco e nella foresta di Madre de Dios, dove regna l’illegalità e nemmeno la polizia ha il coraggio di addentrarsi. Sono armati fino ai denti, ci raccontano i locali.
Da un paio di anni, attività minerarie illecite con capitali cinesi sono state rilevate anche a Huanuco, nella Riserva comunale El Sira, in seguito al caso di Yi Yanguang e del gruppo Shuanghesheng Mining, accusato di attività estrattive illegali in tre regioni differenti. "Storie di land grabbing da parte di cittadini cinesi se ne sento in diverse parti del Paese, ma non mi risulta che il governo di Pechino sia mai intervenuto per fermare il fenomeno. Inoltre, è bene tenere a mente che il 77% degli investimenti diretti cinesi per il periodo 2005-2013 sono finiti in Amazzonia, di cui la maggior parte in miniere peruviane", ci spiega Kepes, "compagnie cinesi hanno anche acquistato milioni di tonnellate di avorio dal cartello messicano dei Cavalieri Templari".
Agganciato nel mirino delle organizzazioni internazionali, nel 2012 il governo peruviano ha deciso di fare ordine inasprendo le sanzioni e incorporando le attività estrattive informali nel codice penale. Il 19 aprile scorso è entrato in vigore un divieto nazionale sulle estrazioni illegali; soltanto dieci giorni dopo Huepetuhe, fiorente polo minerario fin dagli anni ’80, veniva colpito da un raid senza precedenti. Ruspe, generatori e pompe d’acqua sono state fatte saltare in aria dalle forze dell’ordine davanti ai minatori sgomenti, ora "condannati alla fame" o a ripiegare su attività criminali, come avverte Fedemin, federazione che rappresenta i minatori illegali. "Negli ultimi tempi la facoltà mineraria è diventata una delle più frequentate tra i giovani", racconta una guida di Puno."La triste verità è che le miniere informali costituiscono tutt’oggi una delle poche fonti d’occupazione nelle regioni più povere del Paese".
Da parte sua, Pechino sta cercando di abbellire la propria immagine attraverso una sorta di "diplomazia della Corporate Social Responsability". Come ci spiega "Cynthia McClinton, docente di Relazioni internazionali presso la George Washington University ed ex Presidente della Latin American Studies Association, "sembra che il governo cinese stia (letteralmente) tentando di ripulire il proprio business in Perù". Nella sua ‘lunga marcia’ nel Paese andino -fino ad oggi- il Dragone ha mantenuto un profilo abbastanza basso. Niente a che vedere con i vistosi progetti ferroviari sbandierati in Africa. A quelli in Perù ci pensarono il cittadino inglese Miguel Grace e la Peruvian Corporation alla fine dell’Ottocento, dopodiché poco altro è stato fatto e tutt’oggi i collegamenti su rotaia si riducono a due linee non collegate tra loro per scarsi 2374 chilometri.
Questo non vuol dire che le cose non cambieranno in futuro, tanto più che per quanto riguarda gli investimenti in Sudamerica il governo cinese auspica da tempo uno spostamento dei pesi dal tradizionale comparto energetico a settori più innovativi, come l’hi-tech, la finanza e l’agricoltura di precisione. Durante la sua seconda visita in America Latina, a luglio, il Presidente Xi Jinping ha annunciato il raggiunto accordo per la costruzione di una mega-ferrovia che dovrebbe estendersi per 3000 chilometri collegando la East e la West Coast, partendo dal Brasile e finendo in Perù. Si tratta del più grande progetto ferroviario mai lanciato da un leader cinese a margine di una visita di Stato.
Nel cedere lo scettro a Hu Jintao, durante il XVI Congresso del Partito comunista cinese, il Presidente uscente Jiang Zemin aveva dato precise direttive per le amministrazioni future: «Mantenere come obiettivo centrale lo sviluppo economico», non dimenticando tuttavia «risorse e ambiente», così come «la promozione di un progresso sociale a tuttotondo». Nel 2008 Pechino ha rilasciato il primo Policy Paper on Latin America and the Caribbean con il chiaro intento di dissipare le paure dei partner sudamericani davanti all’aggressività imprenditoriale dei businessmen cinesi. Punto numero uno: «favorire il mutuo rispetto, la mutua fiducia ed espandere gli interessi comuni».
[Continua la prossima settimana]
*Alessandra Colarizi, classe ’84, bazzica l’Estremo Oriente dal 2005, anno in cui decide di chiudere per sempre i tomi di diritto privato e aprire quelli di cinese. Si iscrive alla Facoltà di Studi Orientali dell’Università di Roma La Sapienza e nel 2010 consegue la laurea magistrale. In questi anni coltiva il suo amore per cineserie e simili, alternando lo studio sui libri a frequenti esplorazioni attraverso il continente asiatico. Abbandonata la carriera accademica, approda alla redazione di AgiChina24, trascorre diversi mesi presso lo Studio Legale Chiomenti di Pechino, infine rimpatria. Oggi collabora da Roma con l’agenzia di stampa cinese Xinhua.