La guerra di soft power in corso attualmente per il predominio sull’Oceano Indiano rilancia la contrapposizione tra Cina e India, epica evocativa di questo inizio millennio. Ma lo scontro si svolge ad armi impari, con Pechino decisamente più avvantaggiata nell’assicurarsi rotte e amicizie tra Asia e Africa. Un’analisi scritta per Pagina99.
«Sabato, ottavo giorno di luglio dell’anno 1497, siamo salpati in viaggio. Che Dio nostro Signore ci permetta di completarlo in suo servigio, Amen». La preghiera di Vasco de Gama, esploratore portoghese e primo europeo ad attraccare sulle coste indiane del Kerala, venne esaudita scampandogli la tormentata fine del naufrago.
Prima di lui, mai nessuno era riuscito ad avventurarsi al largo delle coste dell’Africa Orientale osando tagliare diametralmente la vastità dell’Oceano Indiano. L’attracco al porto di Calicut, datato 20 maggio 1498, ha segnato non soltanto l’ennesimo buon servigio reso all’Onnipotente dai navigatori della corona portoghese, ma soprattutto ha fissato l’anno zero della guerra per il predominio e il controllo degli oltre 10mila chilometri che dividono Malindi dall’India occidentale, una distesa di acqua salata che presto avrebbe fatto la fortuna degli Imperi del Vecchio continente. E, di conseguenza, inaugurato la stagione del dominio occidentale sulle potenze orientali che, da secoli, sfruttavano le correnti marine per alimentare scambi di beni e culture nell’Oceano Indiano.
L’apertura delle rotte oceaniche pose le basi per l’espansionismo dei portoghesi e degli olandesi, prima, e degli inglesi poi, che con la East India Company a partire dal sedicesimo secolo colonizzarono a suon di cannonate e profitti la quasi totalità dell’Asia meridionale e del sudest asiatico. Ora che si potevano trasportare merci sfruttando la maggiore forza dei venti del mare aperto, il commercio marittimo andò pian piano sostituendo le carovane euroasiatiche, ridefinendo la logistica degli scambi intercontinentali.
Sono passati quasi 500 anni e il controllo dell’Oceano Indiano ancora non è passato di moda. Rispetto al viaggio in solitaria di De Gama, il secondo Oceano più grande del mondo negli anni duemila si è piuttosto affollato: attraverso l’enorme bacino che collega il sudest asiatico allo stretto di Hormuz e, passando per il canale di Suez, al mar Mediterraneo, oggi passano più o meno 43mila navi cargo all’anno, trasportando più dell’80 per cento del petrolio scambiato via mare e, chiuso in milioni di container (per il 90 per cento prodotti in Cina), oltre il 30 per cento delle merci mondiali.
Il refrain collettivo della stampa internazionale, speculando sulla sfida per il predominio oceanico, indica il solito – ciclico ed evocativo – scontro tra Cina e India. La tentazione di rilanciare la zoomachia tra Elefante e Dragone (sic!) è irresistibile, bloccati come siamo in un’epica circolare che vede il continuo contrapporsi di buoni presunti – o sperati – filo-occidentali impegnati a salvarsi – e salvarci – dall’irresistibile avanzata del nemico estremo orientale.
Ma i segnali arrivati dal presidente Xi Jinping e dal premier Narendra Modi lasciano intravedere un quadro molto più realistico e pragmatico.
I due stati-continente asiatici hanno presentato al mondo i rispettivi programmi di sviluppo degli scambi nell’Oceano Indiano: la Cina, quasi un anno fa, propose ai paesi dell’Asean la propria leadership per una nuova “Maritime Silk Road”, una Via della Seta Marittima del terzo millennio che stimolasse il trasporto di merci, nei fatti, ma inserita nell’epica cornice delle rotte navali dell’esploratore Zheng He, il Cristoforo Colombo dell’Impero Cinese; il Ministero della Cultura indiano, quest’estate, ha lanciato il suo “Mausam Project”, con l’intento “culturale” di «riconnettere e ristabilire le comunicazioni tra i paesi del mondo dell’Oceano Indiano, procedendo verso una nuova comprensione dei valori e degli interessi culturali» dell’area rifacendosi alla tradizione dei primi esploratori e commercianti indiani, che già dal terzo millennio avanti Cristo navigavano verso occidente sfruttando le correnti stagionali propizie.
Pensare che i due progetti siano concorrenziali significa ignorare il grado di penetrazione che la Cina, negli ultimi anni, ha guadagnato – anche – nell’Oceano Indiano e l’esigua potenza di fuoco commerciale che l’India, al di là dei proclami di grandeur del suo nuovo primo ministro, può vantare in campo internazionale.
Pechino, da anni, sta portando avanti con successo una politica di rapporti bilaterali basati sul cosiddetto – dalla Cina – principio di win-win: accordi commerciali ed estrazione delle materie prime in cambio di infrastrutture.
Avete tante risorse minerarie ma non avete i soldi per estrarle, processarle, spostarle e venderle? Non c’è problema, ci pensiamo noi.
Volete rilanciare l’economia ma vi mancano strade, ponti, porti e aeroporti? Ma vi pare? Bastava chiedere!
I dialoghi immaginari – ma verosimili – si sono tenuti senza soluzione di continuità in ogni angolo del globo dai primi anni Duemila – gli anni del boom – in avanti, con la realizzazione di porti commerciali strategici a farla da padrone.
Col nome in codice “String of Pearls” (Collana di Perle), la rete portuale cinese si sta già estendendo sostanzialmente lungo tutta la costa che racchiude l’Oceano Indiano, individuando via a via governi squattrinati e smaniosi di accedere al generoso “financial aid” cinese.
Sta succedendo a Bagamoyo, Tanzania, dove i 20 miliardi di dollari sborsati da Pechino andranno a sostenere la realizzazione – fissata entro fine 2017 – del più grande porto africano (venti volte quello attuale di Dar al Salam, con una capacità di smistamento di 20 milioni di container all’anno), fiore all’occhiello della presenza cinese nei porti dell’Africa che tocca già Guinea, Ghana, Togo, Nigeria, Camerun, Djibouti, Sudafrica ed Egitto.
Proseguendo lungo la costa, verso Est, Pechino ha fornito gran parte degli 1,2 miliardi di dollari necessari per la realizzazione del porto di Gwadar, Pakistan, a sole 240 miglia nautiche dallo stretto di Hormuz. Nel 2013 il porto “pakistano”, già funzionante a pieno regime, è stato affidato alla supervisione della statale Chinese Overseas Port Holding Company, che ne gestisce le attività come se fosse suo (anche perché, in fin dei conti, lo è).
Stesso discorso vale per Chittagong, Bangladesh, dove la Cina sta cercando di convincere il governo di Dhaka a firmare un memorandum d’intesa per la realizzazione del porto di Sonadia, mentre sono in corso colloqui col governo maldiviano per costruire un porto (civile e militare) su uno degli svariati atolli dell’arcipelago.
Infine lo Sri Lanka, dove coi soldi di Pechino il presidente Rohitha Rajapaksa si è dato a spese folli: un aeroporto internazionale a Mattala, un porto a Hambantota , il noleggio di un satellite cinese per iniziare le roboanti operazioni spaziali della SupremeSAT (l’agenzia spaziale cingalese guidata dallo stesso Rajapaksa che, secondo la stampa locale, «ha sempre sognato di diventare il più giovane astronauta al mondo»), arenatesi dopo il lancio del suddetto satellite nel 2012. E presto arriverà anche un circuito automobilistico, ché all’istrionico Rajapaksa piace molto la Formula 1.
Destreggiandosi tra vanità del potere e avveniristici progetti infrastrutturali, la Cina è riuscita a piazzare bandierine strategiche tutt’intorno al claudicante subcontinente indiano. L’indigenza preoccupante e la crescita ferma intorno al 5 per cento lo scorso anno costringono l’India a rimettere a posto i conti di casa, immaginando un’espansione della propria sfera di influenza necessariamente dipendente dagli investimenti diretti stranieri.
Negli ultimi due mesi Narendra Modi si è assicurato il supporto economico del Giappone, con un assegno da 34 miliardi di dollari per lo sviluppo delle infrastrutture indiane nei prossimi cinque anni, e dell’onnipresente Cina, che ha promesso a Delhi altri 20 miliardi di dollari. Un gruzzolo che servirà per dotarsi di una spina dorsale pro business – ferrovie, sistema idrico, centrali elettriche – che possa rendere almeno immaginabile, in un futuro di certo non prossimo, una corsa a due per il primato di superpotenza asiatica.
L’India si trova di fatto schiacciata tra l’inevitabilità di una cooperazione forzata col vicino cinese, del quale necessita i capitali e i contratti, e il rischio di farsi inghiottire all’interno della sfera d’influenza di Pechino, perdendo anche gli ultimi legami storici con partner come Nepal, Myanmar, Bangladesh e Sri Lanka.
La strategia di Modi pare essere quella del buon viso a cattivo gioco. Il premier indiano, che dal Giappone metteva in guardia la comunità internazionale dalle «politiche espansionistiche cinesi» in contrapposizione allo «sviluppo di tutti», sbandierando una nuova asse democratica indo-giapponese in funzione anticinese, nella sua prima intervista televisiva dalla nomina a primo ministro indiano – concessa a Fareed Zakaria per Cnn – commentando le dispute territoriali che vedono Pechino confrontarsi con gran parte dei paesi Asean nel Mar Cinese Meridionale, ha dichiarato: «Anche la Cina è un paese con antico retaggio culturale. Guardiamo a come si sia concentrata nello sviluppo economico. Difficilmente questo può essere considerato un segno di chiusura. Vuole mantenersi interconnessa. Ecco perché noi dovremmo avere fiducia nella comprensione cinese e confidare nella sua volontà di accettare le leggi globali e svolgere il proprio ruolo nella cooperazione e nel risolvere i dissidi».
Modi – personaggio controverso e autoritario, ma certamente non stupido – sa che affrontare di petto l’avanzata cinese – anche nell’Oceano Indiano – sarebbe come schiantarsi in bicicletta contro un tir lanciato a tutta velocità.
Alla concretezza della nuova “Maritime Silk Road” l’India non può che opporre il suo “Mausam Project” ancora in stato embrionale. Una dichiarazione d’intenti a cui, al momento, mancano i fondi, la rete di rapporti bilaterali consolidati e le offerte materiali ai potenziali partner. Troppe carenze per farne davvero un progetto alternativo a quello di Pechino.
Nel frattempo, la speranza è che, con 10mila chilometri di estensione, l’Oceano Indiano sia abbastanza vasto per accogliere, qua e là, questi primi vagiti di soft power indiano, navigando in scia dietro ai cinesi. In attesa di venti migliori.
–
Nuovi progetti, vecchie tradizioni
Cina e India, coi rispettivi “Maritime Silk Road” e “Mausam Project”, proiettano verso la comunità internazionale una volontà di espansionismo dolce, rifacendosi ad un passato di esplorazioni e scambi decisamente meno minaccioso rispetto ad una realtà spoeticizzata fatta di basi militari, container e cargo navali.
Per Pechino, rilanciare l’immaginario collettivo della Via della Seta Marittima rientra nello sforzo di mettersi al riparo, grazie all’uso di un oculato impianto di soft power, dalle accuse di neoimperialismo. Centrale, in questo senso, è la figura di Zheng He, esploratore cinese del quindicesimo secolo che ha vissuto, dal 2005 ad oggi, uno strabiliante ritorno in auge nel pantheon dei cinesi che hanno contato e coi quali si vuole identificare l’idea di Cina nel mondo.
Zheng era al comando dell’imponente flotta voluta dall’Imperatore Yongle della dinastia Ming. Le gesta dell’ammiraglio Zheng, che esplorò in lungo e in largo i mari del sud est asiatico e l’Oceano Indiano, vantano addirittura una scoperta dell’America precedente a quella colombiana, datata 1421 dopo Cristo.
I viaggi di Zheng contribuirono enormemente alla tradizione cartografica cinese, mappando mari fino a quel momento inesplorati e dando un impulso al commercio marittimo. Se la dinastia Ming è passata alla storia come un’era tra le più illuminate dell’Impero Cinese, lo si deve anche alle esplorazioni di questo ammiraglio musulmano, uomo fidato del Figlio del Cielo Yongle facente veci di ambasciatore della grandezza cinese nel mondo.
Come tutti i più stretti collaboratori dell’Imperatore, Zheng He era un eunuco, condizione imprescindibile per aspirare in epoca imperiale a cariche di prestigio. La castrazione, nella tradizione cinese, simboleggiava la dedizione estrema alle mansioni affidate dal sovrano, rinunciando volontariamente al proprio apparato riproduttivo così da non poter avere figli e, quindi, essere liberi dalla tentazione della corruzione o del complotto (equazione non sempre veritiera nella travagliata storia imperiale cinese).
Mausam, parola hindi di derivazione persiana, significa “stagione” o “tempo atmosferico”. L’etimologia è la medesima di monsoni, i venti stagionali che determinano l’alternarsi delle sei stagioni del subcontinente (primavera, estate, stagione piovosa / monsone, autunno, medio inverno, inverno).
Sfruttando i monsoni i primi navigatori di quella che oggi chiamiamo India, fin dal 3000 avanti Cristo, si spinsero verso Ovest alimentando lo scambio di merci – spezie, tessuti, erbe medicinali, manufatti in legno e metallo – con le civiltà mediorientali e dell’Africa settentrionale.
La rete di scambi, secondo i resoconti storiografici indiani, coinvolgeva sia l’Impero Egizio sia l’Impero Romano tanto che, nell’attuale Kerala, sono state rinvenute grandi quantità di monete ed anfore romane, prova tangibile dell’esistenza – fin a quel momento solo ipotizzata – della città portuale di Muziris.
[Scritto per Pagina99; foto credit: Pagina99, khudi.pk, mpoverello.com]