La quarta assemblea plenaria del Comitato Centrale (20-23 ottobre) si concentrerà sul rule of law. Il presidente chiede alle corti di giustizia di aiutarlo a “costringere il potere in una gabbia”. Ma nella Repubblica popolare neanche le parole del presidente sono definitive. Sulla riforma della giustizia e l’importanza del rule of law sotto Xi Jinping ancora non è chiaro quale sia la versione da consegnare alla Storia. Il vero problema della Cina oggi, non sono le leggi, ma la loro applicazione.
Quello dei giudici non è un mestiere facile, in nessun paese. Figuriamoci in Cina, dove la loro carriera è legata a doppio filo ai segretari di Partito e, di conseguenza, ai loro interessi locali. Nella maggior parte dei casi, infatti, crescono all’interno di un’unica corte di giustizia e, sicuramente, hanno meno potere non solo della polizia ma anche degli imprenditori. Troppo spesso questi ultimi possono vantare appoggi politici di così alto livello da far passare a qualunque giudice la fantasia di indagarli. “Le corti non sono indipendenti. Di conseguenza i giudici non sono credibili e la gente non crede nella legge”. È questa la semplificazione che restituisce all’Economist un’ex giudice di Shanghai. Dopo otto anni in cui non le era stato concesso nessun avanzamento di carriera, ha lasciato il suo misero salario da 14mila euro l’anno per un affermato studio legale privato. Oggi guadagna cifre nemmeno comparabili a quelle offertegli dallo Stato ed è paradossalmente più libera di svolgere il proprio lavoro. La sua impressione è che molti dei giudici più giovani stiano facendo la sua stessa scelta. E il Partito, che da quando Xi Jinping è presidente è tutto concentrato nella lotta alla corruzione e nell’affermare che nessuno (soprattutto i nemici politici del Presidente) può dirsi al di sopra delle leggi, non ci fa certo una gran bella figura.
E infatti la quarta assemblea plenaria del Comitato Centrale -20-23 ottobre uno dei rari appuntamenti che riunisce gli oltre 300 uomini preposti alla guida del paese – si concentrerà proprio sul rule of law, ovvero sul sistema di regole che disciplinano l’esercizio del potere pubblico. Il sistema legale, sono d’accordo anche i più alti vertici, ha bisogno di essere riformato. L’obiettivo dovrebbe essere quello di arrivare al punto in cui “i giudici possano decidere essi stessi i casi da esaminare e possano esaminare i casi che essi stessi decidono”. Ma allo stesso tempo Xi Jinping vuole essere sicuro che la parola finale spetti al Partito. Così i giudici, la cui stragrande maggioranza è iscritta al Partito, vengono obbligati a partecipare a “sessioni di studio” dove si rinfresca l’ideologia socialista. Il presidente nei suoi discorsi chiede alle corti di giustizia di aiutarlo a “costringere il potere in una gabbia”. Ma nella Repubblica popolare neanche le parole del presidente sono definitive. Mentre i discorsi trasferiti su carta salgono e scendono i piani del Dipartimento di propaganda e degli uffici preposti, si riempiono di correzioni, aggiunte e cancellature. E sulla riforma della giustizia e l’importanza del rule of law sotto Xi Jinping ancora non è chiaro quale sia la versione da consegnare alla Storia.
Quest’estate l’ufficialissimo Dipartimento centrale di propaganda ha pubblicato “Il manuale introduttivo dei discorsi del segretario generale Xi Jinping”. Come si legge nell’introduzione, si tratta della “bussola scientifica sulle idee unificanti e sull’avanzamento dei lavori [del Pcc] nella nuova era”. Un’opera destinata a essere la base delle scelte dei funzionari del paese più popoloso del mondo e quindi a indirizzare il suo enorme Partito (oltre 80 milioni di iscritti) nella direzione scelta dalla leadership. Per farsi un’idea si calcola che solo nella seconda metà di agosto ne siano circolate più di dieci milioni di copie. Ecco, da questa summa governativa dell’era Xi Jinping, è scomparso un discorso stra-citato dai media occidentali e non. Si tratta di uno dei primi discorsi. Xi Jinping era stato appena designato presidente e – in occasione del trentesimo anniversario delle modifiche alla Costituzione di Deng Xiaoping (4 dicembre 1982) – aveva affermato di voler “governare la nazione sulla base della Costituzione”. Un passaggio scomparso dalla summa ufficiale, ripreso in un recente discorso del presidente (5 settembre) senza però che i media locali lo riprendessero.
A un lettore occidentale, queste precisazioni sembreranno quantomeno didascaliche. Non a chi si occupa di studiare le volontà politiche di quella che si appresta a divenire la prima economia mondiale. I processi decisionali della Repubblica popolare, infatti, rimangono tra i meno trasparenti del mondo. Al punto che gli osservatori cinesi e internazionali scherzano sul fatto che si trovano costretti a leggere e interpretare le foglie di tè. Il punto qui da sottolineare è che per “i principi base della Costituzione" spesso governo e opinione pubblica non intendono le stesse cose. Per il governo il principio base è quello del preambolo del 2004 che di fatto assume che la leadership del Partito comunista è il cuore del progetto del socialismo con caratteristiche cinesi. L’opinione pubblica invece si riferisce ai principi fondamentali dei diritti e doveri dei cittadini e, in particolar modo, “alla libertà di parola, di stampa, di assemblea, di corteo e manifestazione”, “al rispetto e la salvaguardia dei diritti umani” e “alla protezione dei diritti di proprietà”.
Infatti, sebbene la Costituzione li garantisca, troppo spesso si verificano situazioni in cui questi diritti vengono negati con il tacito assenso delle istituzioni. Specie se la negazione di questi diritti è il risultato di una politica governativa. La testimonianza evidente sono tutti quegli avvocati che, per denunciare gli abusi subiti dai loro assistiti, rischiano di diventare essi stessi vittime del sistema. O più semplicemente l’aumento esponenziale delle restrizioni su internet e del numero di intellettuali messi a tacere con accuse quanto mai vaghe come “disturbo dell’ordine pubblico” o “tentativo di sovvertire l’ordine dello Stato”. Il vero problema della Cina oggi, non sono le leggi, ma la loro applicazione.
Susan Finder è un ricercatore che ha studiato la Suprema corte del popolo per oltre vent’anni e ha recentemente messo in luce come questa stia lentamente assorbendo alcuni concetti legali occidentali come la pubblicazione di “casi studio” che dovrebbero far da guida alle corti di livello inferiore. Tra questi, un regolamento del 2007 che prevede che i cittadini cinesi possano richiedere ai governi informazioni in merito a specifiche questioni. Ovviamente in questi anni diversi cittadini se ne sono serviti. Chi ha richiesto l’impatto ecologico di determinati progetti, chi contratti di proprietà di terreni che venivano espropriati forzatamente. Ma, nell’opinione stessa della Corte suprema, in ognuno di questi casi specifici i governi locali hanno alzato un muro di gomma senza specificare le basi legali su cui poggiavano il rifiuto. È una situazione che suggerisce il fatto che la principale autorità giudiziaria sta cercando di far pressioni affinché le leggi vengano applicate e che i percorsi legali siano più trasparenti. Ma allo stesso tempo evidenzia come più che della mancanza di leggi specifiche, la Cina soffre la non applicazione di quelle già esistenti.
Si veda il caso più eclatante, quello dei vertici politici della nazione. Il presidente Xi Jinping ha annunciato di voler fare pulizia sin dal suo insediamento. Per i funzionari di partito non sono più tollerati stili di vita eccentrici e, soprattutto, la corruzione. Ma come agisce sui funzionari corrotti? Attraverso l’applicazione del rule of law? Neanche per idea. Non è la magistratura a indagarli ma la Commissione centrale per le ispezioni disciplinari guidata da Wang Qishan, sodale del presidente fin dalla gioventù. E, poiché è uno strumento interno al Partito, la sua attività è avvolta da totale segretezza. Agisce sui suoi membri attraverso lo shuanggui ovvero una sorta di misura di detenzione extralegale senza limiti temporali né procedura stabilita. I funzionari che vi incappano in teoria devono semplicemente mettersi a disposizione dell’indagine interna. Ma in pratica vengono costretti a confessare qualunque crimine, con conseguente espulsione dal Partito e consegna al pubblico ministero. E, senza dubbio, corruzione e abuso di potere sono le accuse più semplici da denunciare per evitare che l’opinione pubblica venga a conoscenza di ‘sordidi dettagli’, ovvero intrighi e giochi di potere che ‘macchierebbero’ in maniera indelebile l’immagine del Partito.
Così hanno arrestato Bo Xilai, l’ex principino rosso che sembrava destinato a diventare il novello Mao. E, più recentemente, il generale in pensione Xu Caihou, già membro del Politburo, vice presidente della Commissione militare centrale e incaricato di supervisionare le nomine all’interno dell’Esercito popolare di liberazione. Così hanno incastrato la "tigre" Zhou Yongkang. L’ex zar dei servizi di sicurezza cinesi, il potentissimo numero 9 che nella scorsa nomenklatura era a capo della Commissione militare verosimilmente sarà espulso dal Partito durante questo plenum. Solo allora il suo caso passerà nelle mani della magistratura. E pare che sia sotto shanggui da oltre un anno. Certo erano pezzi grossi e erano corrotti. Ma siamo sicuri che i cittadini cinesi non avrebbero più fiducia nella legge se i loro processi avvenissero alla luce del sole senza il sospetto che siano guidati principalmente da desideri personali di vendetta o da giochi di potere?
Anche la recente campagna contro le multinazionali straniere sembra guidata dal un’istanza di protezionismo piuttosto che da una vera e propria compagna legale. Sono accusate da media e governo di non prestare attenzione alla sicurezza alimentare, di concorrenza sleale e di altre pratiche poco nobili. Un trattamento che sarebbe giusto riservare anche ai loro competitor cinesi. Ma il messaggio evidentemente è rivolto ai cittadini: non pensate che i marchi stranieri siano migliori dei nostri. Il vero problema, ci spiegava l’ex direttore della Camera di commercio europeo Davide Cucino, è che in Cina “è come se l’arbitro e i giocatori giocassero nella stessa squadra”. Una situazione che manderebbe ai matti qualsiasi concorrente.
Ad agosto la Camera di commercio europeo ha accusato l’antitrust cinese di abusare del suo potere con tattiche intimidatorie e non permettendo ai loro rappresentanti legali di partecipare alle audizioni. Jörg Wuttke, l’attuale presidente, ha recentemente espresso “l’assoluta necessità di una maggiore aderenza al rule of law”. Ma Emanuela Verrecchia, avvocato presso Rouse, uno dei più importanti studi internazionali che si occupano di proprietà intellettuale, ci tiene a specificare che su queste questioni c’è anche un grande pregiudizio da parte delle aziende straniere “che non investono nella prevenzione prima di entrare nel mercato cinese. Spesso non brevettano nemmeno i prodotti e quando si rivolgono a noi perché sono stati copiati, le loro richieste non sono neanche impugnabili”.
Anche secondo l’avvocato, le leggi in Cina ci sono e hanno fatto passi da gigante. “Ma come spesso accade – ci spiega – le difficoltà sono nell’enforcement, nell’applicazione dei diritti”. È sempre la costituzione che recita che la Repubblica popolare è governata secondo la legge ed è un paese socialista soggetto alla rule of law. Ma a chi vive e lavora nella realtà cinese da anni pare evidente che la piega che la Cina di Xi Jinping sta prendendo è molto più autoritaria e reazionaria di quanto annunciato appena un paio di anni fa, quando il nuovo presidente appariva il riformatore che avrebbe ripristinato il rule of law risolvendo finalmente le contraddizioni tra la natura socialista del regime e la strada capitalistica imboccata negli ultimi 30 anni.
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