Mentre cominciano i colloqui tra il governo di Hong Kong e Occupy – o una parte di esso – la protesta si trova di fronte a un difficile passaggio: quello dalla piazza alla rappresentanza. Il momento è delicato anche perché due destre contrapposte possono conquistare spazio fuori e dentro il movimento a ogni passo falso e la componente operaia non riesce a sfondare. Ne parliamo con Au Loong-Yu, storico militante. A Hong Kong, i rappresentanti degli studenti incontreranno venerdì il segretario generale dell’amministrazione hongkonghese, Carrie Lam e altri due funzionari. L’incontro sarà chiuso al pubblico ma aperto ai media.
La Federazione degli Studenti, l’organizzazione che sembra avere preso la guida del movimento, dice che le occupazioni continueranno comunque finché non si registreranno progressi. Esprime anche delusione per il fatto che nel primo incontro con la signora Lam non si discuteranno le due principali richieste del movimento: suffragio universale “genuino” e nomina pubblica dei candidati alla carica di Chief Executive. Fuori discussione anche l’altra richiesta che si è aggiunta nell’ultima settimana: le dimissioni dell’attuale Chief Executive, Leung.
Intanto però i numeri all’interno dei sit-in si riducono e nei piccoli commercianti, la componente sociale che può fare la differenza numerica e spostare l’ago della bilancia pro o contro Occupy, comincia a serpeggiare fastidio per i “danni” creati dal movimento.
Parliamo di questa delicata fase con Au Loong-Yu, militante di vecchia data della sinistra hongkonghese, animatore ed editor di China Labour Net.
Cominciamo proprio dalla composizione sociale del movimento, con un occhio alla geografia dei sit-in.
Qual è la differenza principale tra i sit-in di Mong Kok e di Admiralty dal punto di vista della composizione sociale? Secondo Sophia Chan, Mong Kok è più un concentramento proletario, mentre in Admiralty ci sono soprattutto studenti e colletti bianchi. È vero?
C’è una differenza, anche se non è così ben definita. Ad Admiralty il blocco stradale è su una via a grande scorrimento, in una zona trafficata solo di giorno. È vicino al centro finanziario e alle case di chi vive sulla Hong Kong Island, che generalmente è più ricco di chi sta a Kowloon o nei New Territories. Quindi, in termini di classi sociali, al sit-in di Admiralty c’è il ceto medio e talvolta anche elementi della borghesia benestante.
Invece, Mong Kok è fondamentalmente un grande bazaar a cielo aperto in un’area popolare. Quindi lì il concentramento è composto soprattutto da lavoratori, piccoli negozianti e consumatori a basso reddito, in un contesto molto vivo ed eterogeneo.
In un’area con queste caratteristiche, è ovvio che c’è anche una maggiore presenza della mafia, cioè delle triadi. E infatti è lì che i mafiosi a libro paga hanno aggredito gli studenti. Ma attenzione: non facciamo l’errore di considerare tutto il sottobosco locale come anti-Occupy. Ci sono stati dei giovani gangster che si sono messi a difendere i loro coetanei, così come dei lavoratori, dei proletari.
Qual è la tua opinione sulla composizione degli aggressori? Ci sono prove sul collegamento tra il governo e le triadi per destabilizzare il movimento?
Non c’è alcuna prova diretta. Gli studenti chiedono un’inchiesta perché c’è il sospetto di una collusione tra triadi, governo e anche organizzazioni simil-fasciste sponsorizzate da Pechino, una componente di cui finora non si è parlato.
Questo aspetto delle organizzazioni simil o para-fasciste è interessante, senza voler ricondurre il mondo hongkonghese a categorie occidentali. In un precedente colloquio, mi avevi spiegato che anche nel movimento ci sono organizzazioni del genere, come “Civic Passion” [Jithyut Gungman in cantonese, Rexue Gongmin in mandarino; “cittadini dal sangue caldo”, alla lettera, in italiano, ndr].
Sì, ci sono due destre apparentemente contrapposte. Da un lato, un’estrema destra estremamente attiva e sponsorizzata dal Partito comunista cinese che pone l’accento sul tema del patriottismo, cioè del nazionalismo cinese estremo. Sono loro che organizzano gli attacchi. Si tratta di diversi gruppi molto violenti, conosciuti come aizibang.
Ma abbastanza ironicamente, all’interno del movimento ci sono organizzazioni di destra hongkonghesi come “Civic Passion” o “People Power” [Janman Likloeng in cantonese, Renmin Liliang in mandarino, “potere del popolo” in italiano, ndr]. Non hanno una grande influenza, ma continuano a occupare un certo spazio politico, quello che resta vuoto. Assumono posizioni sempre più estreme e definiscono i cinesi continentali “scimmie”, sono assolutamente contro l’immigrazione dalla Repubblica Popolare. Ma sono anche ostili a ogni politica progressista, al movimento operaio, alla sinistra. È il nazionalismo hongkonghese.
L’altro giorno la Federazione degli Studenti ha votato per l’abbandono del sit-in di Mong Kok, ma il concentramento è diventato invece più grosso. Adesso sono gli stessi studenti che avviano il dialogo con il governo, che sembrerebbe riconoscere solo loro. C’è un problema di leadership e di rappresentanza in Occupy?
Non c’è una sola leadership e il movimento, in sintesi, non ha leader. La Federazione degli studenti è molta contraddittoria nei suoi messaggi. Quindi, direi che è il caos. Tuttavia, il governo ha deciso di parlare con gli studenti e, forse, con i pan-democratici e con il trio che ha iniziato Occupy: Benny Tai, Chan Kin-Man e il reverendo Chu Yiu-Ming.
La gente nelle strade è però molto sospettosa nei confronti dei partiti e ha sentimenti altalenanti. Da un lato, sembra credere un po’ di più agli studenti che ai partiti, ma non necessariamente è d’accordo con le posizioni che esprimono. Quindi c’è una tensione tra chi ha lanciato il movimento e chi è invece nelle strade in questo momento e che, però, non ha un canale istituzionale per dare voce alle proprie idee. È una debolezza.
Questo è il motivo per cui credo che se il movimento non riesce fare un salto di qualità, coinvolgendo ancora più gente, allora si esaurirà abbastanza presto. Chi si è mobilitato finora è stanco e, problema ancora più grave, il movimento sta cominciando ad alienarsi la piccola borghesia, i commercianti, che possono facilmente diventare la base sociale della destra.
I piccoli commercianti rappresentano il blocco sociale più importante di Hong Kong?
Non in termini numerici, perché la composizione di classe della città è molto polarizzata. Anzi, i piccoli negozianti sono sempre meno. Ma la mentalità della piccola borghesia è del tutto dominante.
In questo quadro, qual è il ruolo e il peso del movimento operaio?
Non è assolutamente dominante e, all’interno di Occupy, la componente “lavoro” è piuttosto marginalizzata. Il sindacato ha proclamato lo sciopero che, però, dopo qualche successo iniziale non si è esteso. Anche visivamente, durante le manifestazioni, sono davvero poche le bandiere del sindacato. Diciamo che molti membri delle Union sono nel movimento e si danno da fare nelle occupazioni, ma in quanto a dare l’indirizzo alla lotta o assumerne la leadership, sono tagliati fuori.
Cosa prevedi per il futuro?
Siamo a un punto di svolta, con i sentimenti degli hongkonghesi molto altalenanti. Il movimento sta cominciando ad alienarsi la piccola borghesia e le classi subalterne, non può permetterselo.