L’Università di Chicago e quella della Pennsylvania non hanno rinnovato la licenza agli Istituti Confucio che ospitano nei loro campus. Organizzazioni no profit che solo l’anno scorso hanno speso oltre 200 milioni di euro per promuovere la lingua e la cultura cinese nel mondo. Ma che, sempre più spesso, vengono accusati di essere organi di propaganda. Federico Masini, Paolo De Troia e Alessandra Lavagnino ci spiegano il loro punto di vista di direttori di Confucio italiani e professori di sinologia.Oltre 200 milioni di euro solo nel 2013. Contro i 144 dell’anno precedente e i 120 del 2011. Nel 2006, il budget era di appena un sesto. Come il prodotto interno lordo della nazione più popolosa del mondo, le spese della Repubblica popolare per la diffusione della sua lingua e della sua cultura all’estero sono cresciuti a ritmi impressionanti. Il denaro viene elargito sulla base dei progetti presentati dagli Istituti Confucio, organizzazioni no profit che hanno aperto in ogni angolo del pianeta e che sono sponsorizzate e dirette dall’Hanban, un ufficio per la promozione della lingua cinese direttamente collegato al ministero dell’Istruzione. Un’avventura iniziata esattamente dieci anni fa.
Era il 2004 quando il primo Istituto Confucio ha aperto a Seul. Si volevano diffondere la lingua e la cultura cinese in maniera non dissimile da quanto fanno il British Council, il Goethe Institut o la nostra Società Dante Alighieri. Solo che i Confucio sono molto spesso frutto di accordi bilaterali tra università cinesi e straniere. E quindi nascono e crescono all’interno degli ambienti accademici. Oggi, nel 2014, ce ne sono 465 in 123 nazioni per un totale di 850mila alunni. Delle 200 università migliori al mondo, 88 hanno già aperto un Istituto Confucio. Ormai, ogni volta che Xi Jinping firma un accordo commerciale con altre nazioni, questo include l’apertura di un Confucio. I casi più recenti sono quelli sudamericani, Brasile e Cile su tutti.
“È un problema di brand”, ci spiega Federico Masini, prorettore dell’Università La Sapienza e direttore dell’Istituto Confucio di Roma. “Se un governo spende così tanti soldi per la promozione culturale del proprio paese evidentemente vuole migliorarne l’immagine. Ed è comprensibile che questo sforzo sia più forte in quei paesi dove la politica economica cinese diventa più presente”.
Solo in Italia l’Hanban spende centinaia di migliaia di euro. Ristruttura le aule, paga gli insegnanti, i convegni, le pubblicazioni e gli eventi che ritiene possano dar lustro alla propria cultura millenaria. Il Partito ne è entusiasta. A giugno Liu Yunshan, che occupa una delle poltrone più importanti del vasto apparato di propaganda della Repubblica popolare, ha dichiarato che gli Istituti “hanno fatto la loro comparsa al momento giusto” e li ha descritti come “un treno ad alta velocità della spiritualità” atto a congiungere “il sogno cinese” con quelli del resto del mondo. I soldi fanno comodo a tutti, ma ovviamente non tutti la pensano allo stesso modo.
Sono almeno un paio di anni che negli Stati Uniti le critiche si fanno sempre più feroci. All’inizio di quest’anno un centinaio di membri della facoltà di cinese dell’Università di Chicago si sono formalmente lamentati del fatto che l’apertura dell’Istituto Confucio aveva compromesso l’integrità accademica della loro facoltà . Il professore Marshall Sahlins in un lungo articolo pubblicato sulla rivista Nation ha elencato una serie di casi in cui le università ospitanti hanno evitato di toccare temi “sensibili” per la politica cinese, o evitato di portare il Dalai Lama all’interno dei campus.
Anche per evitare situazioni di questo tipo “l’Istituto Confucio non entra nella didattica ufficiale dei nostri corsi universitari” ci tiene a sottolineare Alessandra Lavagnino, direttrice dell’Istituto Confucio di Milano. In ogni caso, ad agosto di quest’anno, l’Associazione europea per gli studi cinesi (Eacs) ha denunciato la censura del materiale accademico distribuito durante l’importante conferenza di studi sinologici che si svolge ogni due anni.
Come si legge sul rapporto dell’Eacs, chi è arrivato il primo giorno non si è accorto di nulla, ma tutti quelli che hanno ricevuto il materiale dopo hanno notato che c’erano due pagine strappate. Cos’era successo? Nel frattempo era arrivata Xu Lin, direttrice del quartier generale di Pechino degli Istituti Confucio.
Aveva sponsorizzato l’evento e non era soddisfatta dello spazio riservato al logo del Confucio. Tanto più che c’era anche quello del suo corrispettivo taiwanese: la Fondazione Chiang Ching-kuo. Dopo una negoziazione con gli organizzatori del convegno, si è deciso di requisire il materiale ed eliminare le pagine incriminate prima di redistribuirlo tra il pubblico. A chi si occupa della realtà cinese non stupisce né il metodo né la reazione.
Ci sono temi che in Cina rimangono tabù. Taiwan è ancora oggi descritta come “l’isola più grande della Cina”, ed è bene evitare di menzionare gli argomenti che Pechino ha destinato all’oblio. Tian’anmen, l’indipendenza del Tibet o il Falun Gong sono un esempio.
Paolo De Troia, che ha diretto l’Istituto Confucio di Roma dal 2011 al 2014 ed è oggi visiting professor all’Università di Pechino, ci spiega come “anche se non è una regola, è probabile che nessuno chieda fondi all’Hanban per trattare quelle che Pechino considera ‘tematiche sensibili‘. Inoltre gli Istituti Confucio sono strumenti di promozione culturale e non di approfondimento critico”.
“Ma – ci tiene a sottolineare il professor Masini – non ci sono argomenti che sono esplicitamente tabù. Su questi temi certo c’è una sorta di autocensura, ma altre pressioni non ne ho mai ricevute. Neanche sulla politica contemporanea o sull’importanza dei gesuiti nella storia cinese. Oggi nessuno mette più in discussione che la Repubblica popolare è una potenza politica, economica e militare. Ma ancora non riesce a convincere sul fatto di essere un attore culturale di livello mondiale”.
“La Cina vorrebbe intraprendere un percorso simile a quello del Giappone nel secondo dopoguerra” aggiunge Masini. “Una nazione invisa all’Occidente che ha riconquistato il consenso attraverso i film di Kurosawa, la tradizione dell’ikebana e dei bonsai. Forse la strada è ancora lunga, ma il tentativo è quello”.
D’altronde lo stesso Li Changchun, che ha preceduto Liu Yunshan nel suo stesso incarico, ha definito gli Istituti Confucio “una parte importante dell’apparato di propaganda cinese all’estero”. E in cinese, il termine che traduciamo come “propaganda” (xuanchuan) significa anche pubblicità e indica la attività stessa dell’ufficio stampa. E di cosa ha bisogno la Repubblica popolare oggi, se non di un ottimo ufficio stampa?
[Scritto per il Fatto Quotidiano]