Lo show itinerante di Narendra Modi ha fatto tappa in Usa, tra bagni di folla al Madison Square Garden e promesse di investimenti. La lodevole iniziativa, a livello di intrattenimento, stride però con la sostanza di una missione diplomatica piuttosto misera, specialmente con un nulla di fatto nella partnership per il nucleare civile in India.
Non si può dire che Narendra Modi e il suo team manchino dell’abilità di dare un tocco teatrale alla politica. Le visite estere del premier indiano hanno spesso un che di scenografico, dagli stravaganti vestiti tradizionali in Bhutan alla performance da percussionista in Giappone. La visita ufficiale negli Stati Uniti, però, all’insegna del digiuno per la festività indiana di Navratri, ha di gran lunga superato gli exploit precedenti. La teatralità del bagno di folla al Madison Square Garden sarà difficilmente ripetibile.
Dire Madison Square Garden significa evocare momenti gloriosi, quasi epici: viene in mente Elvis Presley, unico artista a riempire per quattro volte l’arena newyorkese nel 1972. Viene in mente il destro finale sganciato da Mohammed Alì sul volto di George Frazier nel 1974, in una rivincita all’ultimo colpo. O ancora, l’enorme concerto di Micheal Jackson del 1988 e i fan in delirio sulle note di Born in the USA, del boss, Bruce Springsteen.
Difficile non accostare l’immagine di Modi a questi momenti. Illuminato, al centro del Madison Square Garden mentre arringa circa 20 mila connazionali, e non, residenti negli USA. Le sue mosse sono ormai collaudate, quelle di chi vuole dare di sé un’immagine fraterna, decisa e protettiva: braccia aperte, mani sul cuore e indici al cielo. Difficile anche non sorridere di fronte all’entusiasmo euforico – tipicamente indiano – di molti dei partecipanti. Resistere ad un pensiero antipatico verso questo “nazionalismo a distanza”, però, risulta impossibile: evviva l’India! evviva Modi! Noi, però, preferiamo vivere in America, grazie.
In tutto il clamore mediatico che è seguito c’è una piccola cosa, che poi tanto piccola non è, che a molti è sfuggita. Un insuccesso negoziale che Modi si trascina di visita in visita e di cui non riesce a venire a capo: la questione dell’energia nucleare.
Attualmente in India sono attivi 21 reattori che producono tra il 3 e il 4 per cento del fabbisogno elettrico del paese, risultando la quarta fonte energetica dopo il carbone, l’acqua e l’insieme delle fonti rinnovabili. In India l’approvvigionamento dell’energia elettrica è un problema che, oltre ad affliggere circa 400 milioni di persone, risulta essere uno degli l’ostacoli maggiori nel processo di attrazione di investimenti esteri.
In questo senso risulta emblematico il fatto che i vertici di alcune tra le maggiori compagnie statunitensi – Mastercard, Google, Caterpillar, Boeing, PepsiCo, solo per citarne alcune – abbiano fatto presente a Modi, durante una colazione di lavoro, che sebbene siano soddisfatti dei nuovi impegni, le loro preoccupazioni in materia di infrastrutture di base non sono diminuite e vorrebbero maggiori garanzie.
Una delle infrastrutture principali di cui l’India risulta carente è la rete elettrica: un impianto capillare che garantisca continuità del servizio e assenza di continui blackout. La necessità di risolvere questo problema è la ragione per cui la questione nucleare occupa un posto importante nell’agenda estera del Governo Modi. I piani del nuovo governo, infatti, sarebbero quelli di far sì che i reattori nucleari arrivino almeno a triplicare la produzione nel giro di un ventennio. Per raggiungere questo obiettivo servono due elementi: uranio e tecnologie adeguate.
L’India non ha, per ora, grande disponibilità di uranio, e i governi precedenti si sono mostrati molto attivi sotto questo punto di vista, siglando accordi in tutto il mondo – Francia, Mongolia, Canada, Inghilterra, Argentina, Namibia, Inghilterra, Russia e Australia – per garantirsi la fornitura del prezioso minerale. La Russia resta il principale grossista, pole position minacciata dall’Australia, paese con cui Narendra Modi ha firmato – solo un mese fa – un accordo per la fornitura di uranio per scopi civili.
Se la disponibilità di materia prima non sembra costituire un problema, le tecnologie lo sono. Costruire nuovi reattori è un’operazione molto lunga e costosa e le compartecipazioni estere sono fondamentali, sia per coprire i costi sia per migliorare i livelli di sicurezza e produttività delle centrali. Gli impianti prodotti dalle industrie tecnologiche indiane hanno infatti una capacità energetica piuttosto basa rispetto, per esempio, ai reattori americani, francesi e russi.
Qui arrivano i problemi. L’India non è firmataria del Trattato di non proliferazione nucleare – il trattato che impedisce l’utilizzo dell’energia nucleare civile per l’implementazione di armamenti –, un dettaglio che frena le intenzioni di molti possibili partner stranieri. Data la sensibilità delle tecnologie in questione, è comprensibile che non siano in molti a voler rischiare di rendersi partecipi dell’incremento del potenziale bellico nucleare indiano.
Nel 2010, inoltre, il Parlamento indiano ha approvato il Nuclear Liability Act, una legge che dà la possibilità di denunciare e intentare cause contro le società costruttrici in caso di disastri nucleari generati da errori di progettazione o falle dei sistemi di sicurezza. Si capisce come, anche in questo caso, le compagnie estere siano piuttosto reticenti.
Il principale motivo del viaggio in Giappone di Narendra Modi era quello di siglare un prolifico accordo in materia di tecnologie nucleari, un colpo non messo a segno. Intendiamoci, la missione in sé non è stata un fallimento – il premier torna in patria con contratti per 35 miliardi di dollari –, ma niente da fare sul fronte nucleare. Il premier nipponico Shinzo Abe ha rifiutato l’offerta, probabilmente – e comprensibilmente – sull’onda lunga del disastro di Fukushima.
Gli Stati uniti erano una seconda grande chance, ma anche qui nulla di fatto. Obama si è dimostrato aperto nel coinvolgere l’India nelle grandi istituzioni intercontinentali per le decisioni in materia di energia nucleare – Nuclear Supplier Group, International Atomic Energy Agency –, ma non un impegno concreto su eventuali scambi di tecnologie.
La possibilità di cooperazione diretta con gli Stati Uniti, tuttavia, potrebbe essere molto più aperta di quanto i silenzi potrebbero lasciare intendere. In uno scenario complicato come quello attuale, il Dipartimento di Stato si trova nella posizione scomoda di non avere più un alleato realmente affidabile in Asia, un ruolo che sembra perfetto per la Repubblica indiana: le due nazioni hanno importanti interessi strategici in comune. Un’ulteriore espansione delle sfere di influenza di Cina e Russia non gioverebbe a nessuno dei due paesi, come pure l’eventuale sviluppo del network del terrorismo islamico. Non da ultimo, il mercato indiano potrebbe diventare una valvola di sfogo fondamentale alla ripresa economica americana.
A conti fatti, gli Stati Uniti non hanno nulla da temere dall’India, anzi. Un’alleanza, però, comporta un vantaggio reciproco e l’appoggio indiano ha il suo prezzo. Un conto che potrebbe essere saldato con la riapertura del canale delle forniture di tecnologia nucleare civile americana verso Delhi.
[Pubblicato su aldogiannuli.it; foto credit: abplive.in]
*Daniele Pagani (@paganida) laureato in Storia contemporanea all’Università degli Studi di Siena, vive a New Delhi dall’inizio del 2014 e ha appena concluso un internship presso il quotidiano nazionale The Hindu. Il suo blog è Impicci.