Un rapporto di Amnesty rivela le atrocità commesse dall’Arsa, braccio armato dei rohingya musulmani, ai danni degli hindu. Una denuncia che può cambiare la percezione della crisi umanitaria, nella quale la minoranza è stata rappresentata solo come vittima di (inconfutabili) violenze.
I militanti dell’Arakan Rohingya Salvation Army (Arsa), l’esercito di liberazione formato da uomini di etnia rohingya di fede musulmana, lo scorso anno avrebbe ucciso quasi un centinaio di rohingya di fede hindu, seppellendo i corpi in una fossa comune nello stato Rakhinesettentrionale, in Myanmar. Questa la durissima accusa contenuta in un rapporto divulgato lo scorso 22 maggio da Amnesty International, frutto di indagini indipendenti condotte intervistando decine di superstiti del massacro, compresi alcuni testimoni oculari.
Secondo quanto riportato da Amnesty International, il 25 agosto del 2017 un gruppo di militanti di Arsa avrebbe attaccato il villaggio di Ah Nauk Kha Maung Seik, nei pressi della cittadina di Maungdaw, rastrellando le case della comunità hindu. Dopo averli derubati e legati, i miliziani avrebbero condotto le vittime fuori dal centro abitato, uccidendo chiunque avesse rifiutato di convertirsi all’Islam. Raj Kumari, diciottenne testimone oculare della mattanza intervistata da Amnesty nel campo profughi di Cox’s Bazar (Bangladesh), ha raccontato: «Hanno massacrato gli uomini. Ci hanno detto di non guardare mentre lo facevano… avevano dei coltelli, delle vanghe e dei bastoni di ferro. Ci siamo nascosti tra i cespugli e siamo riusciti a vedere un po’ quello che succedeva. Mio zio, mio padre, mio fratello, li hanno massacrati tutti».
Il bilancio delle vittime divulgato da Amnesty include 20 uomini, 10 donne e 23 bambini, di cui 14 sotto gli 8 anni. A queste si aggiunge la sparizione di altri 46 rohingya di fede hindu occorsa il giorno seguente nel villaggio di Ye Bauk Kyar, sempre nei pressi di Maungdaw, si sospetta ad opera degli stessi militanti di Arsa. In totale, si contano 99 morti, di cui solo 45 rinvenuti settimane dopo in una fossa comune.
Seguendo la cronologia dei fatti, alla luce di queste nuove accuse, l’intervento dell’esercito birmano contro la comunità rohingya è posteriore ai massacri subìti dai rohingya di fede hindu, condizione che permette ora alle autorità birmane di giustificare la violenza scatenata contro la minoranza etnica.
Nel rapporto, la direttrice del dipartimento di crisis response di Amnesty, Tirana Hassan, spiega: «Agli attacchi sconcertanti di Arsa è seguita la campagna di pulizia etnica dell’esercito birmano contro la popolazione rohingya. Entrambe devono essere condannate: le violazioni dei diritti umani e gli abusi di una parte non giustificano mai abusi e violazioni dell’altra».
La settimana precedente l’uscita del rapporto — durante un meeting del Consiglio di Sicurezza dell’Onu organizzato a New York per aggiornare le istituzioni circa la visita di una delegazione dell’Onu nello stato Rakhine all’inizio del mese — l’ambasciatore del Myanmar presso le Nazioni Unite aveva esortato la comunità internazionale a indagare sulle atrocità di Arsa contro la popolazione civile. Denunciando la promozione di una «narrativa del vittimismo musulmano» da parte dei media occidentali, il delegato del Myanmar U Hau Do San aveva accusato l’occidente di «prendere le parti dei terroristi», chiudendo un occhio sugli attacchi di Arsa sferrati contro altre minoranze dello stato Rakhine, tra cui i rohingya di fede hindu.
Il problema, rilevato anche da Amnesty, continua a essere il rifiuto delle autorità birmaneall’ingresso di giornalisti e osservatori internazionali indipendenti nello stato Rakhine, condizione che costringe, di fatto, l’intera comunità internazionale — organizzazioni a difesa dei diritti umani comprese — a una copertura della tragedia dei Rohingya confinata all’utilizzo di ricostruzioni e fonti raccolte fuori dai territori teatro delle violenze.
Nonostante Arsa abbia sempre negato qualsiasi coinvolgimento in azioni violente contro la popolazione civile, rivendicando solo attentati a posti di polizia e convogli militari, da mesi l’organizzazione è entrata in silenzio stampa: l’attività dell’account Twitter di Arsa, unico canale di comunicazione utilizzato dai miliziani, è ferma al mese di gennaio.
Un silenzio che l’analista politico U Maung Maung Soe, interpellato da The Irrawaddy, interpretava come «riflesso del favore che avevano guadagnato a livello internazionale sull’intera vicenda»: nel racconto dei fatti che hanno interessato lo stato Rakhine dall’anno scorso, la comunità rohingya e i suoi 700mila rifugiati spinti oltreconfine dai pogrom operati dai militari birmani sono sempre stati considerati esclusivamente vittime, oggetto di violenze indiscutibili e documentate.
Ora, con la denuncia di Amnesty indirizzata al braccio armato dei rohingya — seppur Arsa non goda del sostengo plebiscitario della minoranza etnica -, il rischio è che la “perdita della verginità” di Arsa possa ripercuotersi sulla considerazione generale che la comunità internazionale ha della causa rohingya in senso lato: non più solo vittime inermi ma gruppo etnico attraversato, anche, da fazioni armate spietate e musulmane.
Chiaramente, il rastrellamento di appartenenti alla comunità hindu da parte di Arsa è destinato a irrigidire ulteriormente la posizione assunta dall’India circa la crisi dei rifugiati rohingya. New Delhi già aveva minacciato di rimpatriare forzatamente le poche centinaia di rohingya attualmente ospitate in campi profughi in India — uno dei quali recentemente dato alle fiamme in un sospetto rogo doloso — negando ai migranti il permesso di soggiorno per motivi umanitari in quanto comunità musulmana e “quindi” (sic!) a rischio infiltrazioni terroristiche di stampo islamico.
Tale retorica, alla luce delle morti hindu nello stato Rakhine, è destinata a infiammarsi ancora di più, finendo nel tritatutto della propaganda politica indiana.
di Matteo Miavaldi
[Pubblicato su Eastwest]