Tohti – Nessuna mediazione

In by Simone

Ilham Tohti, l’intellettuale uiguro condannato all’ergastolo per separatismo, farà appello. Il caso non si presta a facili letture, ma trasmette una brutta sensazione: sullo Xinjiang, non c’è più spazio per narrative diverse rispetto a quella ufficiale. Che questa riduzione di complessità possa servire a risolvere una questione complicata come quella uigura, resta tutto da vedere. Ilham Tohti è una figura moderata. Di etnia uigura, professore di economia all’università delle minoranze di Pechino, si è sempre definito “zhongguoren”, cinese, e non ha mai sostenuto l’indipendenza dello Xinjiang, bensì una maggiore autonomia all’interno della Cina, in un quadro però di “armonia”, parola cara alla leadership del Celeste Impero.
Esprimeva queste opinioni sul suo sito bilingue, in cinese mandarino e uiguro, Uighurbiz.net e nelle sue lezioni universitarie.
Nel corso del suo processo della settimana scorsa, durato due giorni, aveva ancora ribadito che è nell’interesse della minoranza musulmana dello Xinjiang far parte della Cina. È sempre stato una specie di ambasciatore senza livrea degli uiguri, una figura di congiunzione, preziosa come tutti i mediatori di conflitti.

Certo, non si è mai tirato indietro nel criticare specifiche politiche del governo cinese in Xinjiang. Ma questo è di solito consentito, specialmente nel mondo accademico. Anzi, le autorità politiche spesso utilizzano le voci critiche per sperimentare ipotesi alternative, sempre nel quadro del sistema dato. Tohti non attaccava direttamente la leadership di Pechino, il limite invalicabile.
Aveva sempre criticato l’imposizione della legge marziale in Xinjang, avvenuta a più riprese dalla rivolta di Urumqi del 2009, sostenendo che ciò significava l’identificazione di tutti gli uiguri come potenziali terroristi, ampliando il solco che li divide dai cinesi han.

Il punto di non ritorno si è probabilmente verificato con l’attacco in piazza Tian’anmen dell’ottobre di un anno fa, quando un’auto con tre persone a bordo – identificate poi come un’intera famiglia uigura – si è lanciata tra la folla, uccidendo due turisti proprio nel cuore simbolico della Cina. Da quel momento, abbiamo assistito a un’escalation di violenze e repressione e non c’è stato più spazio per le sfumature.
Tohti è quindi stato arrestato a Pechino lo scorso gennaio con l’accusa di separatismo. Ci si aspettava una condanna, ma nessuno pensava all’ergastolo. Il fatto che gli sia stata comminata la pena maggiore ci dice che in questa particolare fase storica non c’è spazio per le figure di mediazione sulla questione etnica cinese. Specie quando si tratta di Xinjiang.

A questo punto, diverse interpretazioni si inseguono e si accavallano, aiutandoci a ricomporre il puzzle.
Una, sostenuta qualche mese fa dalla poetessa tibetana Woeser, intellettuale dissidente, è che siano state proprio le autorità dello Xinjiang a voler fare fuori Tohti. E Pechino, che ha bisogno dell’impegno di tutti per combattere la minaccia terrorista, non può scontentare chi sta “al fronte”.
Il marito di Woeser, Wang Lixiong, anche lui intellettuale critico, ha offerto questa sintesi in un’intervista al New Yorker: “[Le autorità] non vogliono uiguri moderati. Perché se hai gli uiguri moderati, allora perché non parli con loro? Così, vogliono sbarazzarsi di lui per poter dire all’Occidente che non esistono i moderati e che quindi stanno combattendo contro terroristi”.

Di conseguenza, resta in campo una sola narrativa, quella ufficiale: le violenze in Xinjiang sono opera di elementi separatisti, estremisti religiosi, con legami all’estero. Per risolvere il problema nell’immediato, repressione dura. Sul lungo periodo, invece, la strategia per risolvere i problemi è quella dello sviluppo economico che, secondo il pragmatismo cinese, renderà tutti soddisfatti e con la pancia piena.
Che questo possa funzionare in Xinjiang, è tutto da vedere.