In Cina, i ricchi fanno i bagagli e se ne vanno. È un fenomeno sempre più diffuso, che la leadership di Pechino cerca di dissuadere senza sapere bene come. Ora, un’indagine Barclays rivela che circa la metà dei cinesi ad alto reddito intenderebbe trasferirsi all’estero quanto prima. Vogliono più qualità della vita, ma fuggono anche i propri scheletri nell’armadio. Lo scorso gennaio, il consolato canadese di Hong Kong si scoprì sepolto sotto montagne di scartoffie: un arretrato di ben 53.580 domande inevase per ottenere lo status di “Canadian federal investor”, nell’ambito del programma di immigrazione per ricchi più gettonato al mondo. Il sistema andò in tilt e il governo di Ottawa fu così costretto a congelare i visti.
Il cumulo di carta era stato compilato dai cinesi della Repubblica Popolare, che rappresentano oltre il 70 per cento del portafoglio ordini globale. In base al programma, i candidati che hanno un reddito di almeno 1,6 milioni di dollari canadesi (oltre un milione di euro) ottengono la residenza a patto che “investano” almeno 800mila dollari (circa 530mila euro) sotto forma di prestito, senza interessi e di cinque anni, a beneficio del Canada.
Quelle domande in coda fotografano un fenomeno che Pechino cerca da tempo di dissuadere: l’esodo dei nuovi ricchi che, dopo avere accumulato fortune in trent’anni di boom economico, esportano ricchezze, famiglie e loro stessi medesimi fuori dalla Cina: sia a caccia di una qualità della vita “occidentale” sia per paura della campagna anticorruzione lanciata dalla leadership cinese.
Ora, una ricerca Barclays scopre che quasi la metà dei cinesi benestanti progetta di trasferirsi all’estero entro i prossimi cinque anni.
Il problema non riguarda solo i businessmen, bensì anche il Partito, nel quale al contrario dovrebbero trincerarsi i pretoriani dell’ordine cinese, quelli che ci credono.
Niente affatto. In questo caso, si parla di “funzionari nudi”, cioè quelli che rimangono in patria a lavorare mentre trasferiscono famiglie e – soprattutto – conti correnti, oltre confine, in attesa di filarsela pure loro (da qui l’immagine di “nudità” o frugalità che ne spiega il nome). Lo scorso giugno, le autorità del Guangdong scoprirono che quelli che avevano letteralmente fatto le valigie (piene di quattrini) e trasferito tutto all’estero erano più di mille. Partì allora una campagna di dissuasione: riportate la famiglia a casa, lasciate il lavoro o vi beccate una retrocessione professionale. Una campagna che, si vocifera, dovrebbe a breve estendersi a livello nazionale.
L’indagine Barclays, basata su interviste a più di 2.000 individui per un patrimonio netto totale di 1,5 miliardi di dollari, rivela che il 47 per cento del campione intende trasferirsi, a fronte di una media mondiale del 29 per cento. I potenziali emigrati di lusso citano come motivazioni le migliori opportunità educative e occupazionali per i figli (78 per cento), la sicurezza economica e il clima desiderabile (73 per cento), assistenza sanitaria e servizi sociali migliori (18 per cento). E a confermare la predilizione per la rotta Hong Kong-Canada, si scopre che la principale destinazione è l’ex colonia britannica (30 per cento), seguita proprio dal Paese nordamericano (23 per cento).
Che i motivi veri siano la campagna anticorruzione di Xi Jinping (cioè i propri scheletri nell’armadio) o i timori sul futuro dell’economia cinese non cambia nulla: una ragione non esclude l’altra ed entrambe ci rimandano a una sfiducia rispetto al proprio Paese e a chi lo governa. Altro che il “grande sogno” sbandierato dal presidente Xi.
L’indagine rivela anche che, dopo i cinesi, sono i cittadini di Singapore quelli più desiderosi di andarsene a vivere altrove. Curiosamente, la loro meta preferita è proprio la Cina. Insomma, è come se i cinesi d’oltremare credessero al sistema Cina più di quelli continentali.
Sembra così essere venuto meno il patto epocale, silente, sancito da Deng Xiaoping al momento delle “riforme e aperture” di fine anni Settanta: “Arricchirsi è glorioso”, testa bassa e fare soldi, a governare ci pensiamo noi (Partito), non è affare vostro.
Quel patto ha trasformato milioni di funzionari politici in businessmen e, sopravvissuto anche allo shock Tian’anmen, ha avuto poi una ratifica istituzionale con la teoria delle tre rappresentanze di Jiang Zemin, “l’Andreotti cinese”, il grande vecchio che anche oggi tira qualche filo da dietro le quinte. Nel 2000, fece sapere che il Partito non rappresentava più soldati, operai e contadini, bensì “le forze produttive più avanzate del Paese” e da quel momento si è riempito di palazzinari, tychoon e general manager.
Alla glorificazione dell’arricchimento, il fu Deng aggiungeva una piccola postilla: “Qualcuno si arricchirà prima di altri”. In quel momento era necessario scatenare le forze produttive del Dragone, ma così finiva l’uguaglianza piatta di Mao Zedong e cominciava il capitalismo cinese, che in trent’anni ha prodotto una diseguaglianza ormai politicamente destabilizzante.
Per questo motivo, la leadership di Xi Jinping ambisce oggi a una crescita più equilibrata e, con le riforme lanciate nel novembre 2013, cerca di trasferire ricchezza dalla parte più ricca del Paese a quella rimasta indietro.
Ed ecco che uno dei due contraenti del patto, dopo avere fatto fortuna, prende i soldi e scappa.
Il fenomeno è tanto più minaccioso per il potere cinese perché è proprio sul ceto medio urbano uscito da trent’anni di riforme e aperture che il Partito comunista si gioca il consenso. Ora, è come se i beneficiari di quello scambio dicessero: “Buongiorno e grazie, io tolgo il disturbo”.
Certo, le risposte del campione intervistato da Barclays rivelano l’anelito a una maggiore qualità della vita. Non è un caso che all’origine dei cosiddetti “incidenti di massa”, cioè le proteste che coinvolgono più di cento persone, ci siano sempre più le questioni ambientali piuttosto che i conflitti di lavoro e gli espropri di terre, che erano invece tipici di una civiltà ancora operaia e contadina.
C’è un ceto medio che protesta e uno che se la fila. Paradossalmente, per la leadership, è meno pericoloso il primo.
I soldi esportati altrove non finiscono necessariamente in ville palladiane e acquisizioni di grandi imprese. Il cinese che fa fagotto è spesso di basso profilo, ma con il suo gruzzolo in tasca.
Una conoscente di Pechino, che parla un ottimo italiano e che per anni ha lavorato alla nostra ambasciata, ha deciso di mollare quello che definiremmo un ottimo impiego per buttarsi nelle acquisizioni immobiliari a Milano, Roma e così via. “Comprate residenze di lusso per i ricchi cinesi?”, le ha chiesto l’ingenuo giornalista. “Niente affatto – è stata la risposta – anche appartamenti normalissimi, in periferia. Per i cinesi sono un buon investimento. E poi non si sa mai cosa può succedere”. Diversificare – magari anche Paese – è l’anima del commercio.