Il Comitato centrale del Pcc ha ufficializzato – dopo quasi due anni di voci che si rincorrevano – le indagini sull’ex zar della sicurezza Zhou Yongkang. L’ex numero 9 è accusato di "gravi violazioni disciplinari". E’ il funzionario di più alto grado messo sotto accusa dai tempi della Rivoluzione culturale. Ma a cosa punta la campagna anticoruzione del presidente Xi Jinping?
Si chiama Commissione centrale per le ispezioni disciplinari ed è di fatto l’arma più potente nelle mani del presidente Xi Jinping. Al potere da meno di due anni, Xi ha fatto della lotta contro la corruzione l’obiettivo conclamato della sua presidenza. “Colpiremo sia le mosche che le tigri” aveva dichiarato appena insignito della carica più alta dello stato cinese, che poi coincide con il vertice del Partito e dell’Esercito. E così è stato.
Non passa giorno che l’homepage del sito della Commissione centrale per le ispezioni disciplinari non venga aggiornata con nuovi nomi di funzionari di basso (‘le mosche’) e alto (‘le tigri’) grado incriminanti per corruzione. Secondo diversi analisti, si tratta della più grande campagna contro la corruzione su scala nazionale avviata nella storia recente. Il sistema monopartitico, l’economia pianificata e le aziende di stato sono ovunque un terreno fertile per mazzette e scambio di favori, soprattutto in assenza della separazione dei poteri e di media liberi.
In Cina, infatti, la corruzione è un problema endemico. Soprattutto dagli anni Ottanta quando la Repubblica popolare si è gradualmente aperta al mercato sperimentando quel “socialismo con caratteristiche cinesi” che l’ha portata in poco più di trent’anni a sfidare a viso aperto il primato economico degli Stati Uniti. In maniera direttamente proporzionale alla ricchezza del paese è cresciuto il numero di funzionari corrotti.
È la stessa Accademia cinese delle scienze sociali, il più importante think thank del paese, a denunciare che negli ultimi quindici anni sono scappati dalla Cina almeno 18mila funzionari pubblici trasferendo illegalmente all’estero quasi cento miliardi di euro, l’1,4 per cento del pil annuale nazionale.
E sono gli stessi media di stato a riportare che nell’ultima decade circa 900mila quadri di Partito sono stati condannati per aver preso tangenti. Si tratta di 80-90mila casi di corruzione conclamata all’anno, una media così alta da costringere addirittura l’ex premier Wen Jiabao a descrivere la corruzione come la sfida più grande che il Partito deve affrontare.
Ma c’è da sottolineare che combattere la corruzione permette a Xi Jinping di tenere assieme tre importanti obiettivi: consolidare la sua leadership, tranquillizzare un’opinione pubblica sempre più critica sull’operato del Partito ed eliminare gli ostacoli sulla via delle riforme economiche e finanziare. Riforme che, secondo gli economisti, sono obbligatorie se la Cina vuole evitare di cadere nella trappola del reddito medio.
Ma Xi non è certo il primo a voler fare pulizia. C’è un proverbio cinese che recita: “ogni nuovo capo che si insedia, spazza per terra tre volte”. Ha cominciato Mao Zedong prima ancora della fondazione della Repubblica popolare. Nel 1948, quando ancora il Partito comunista lottava contro l’esercito nazionalista di Chiang Kai-shek, Mao ordinò di “stanare le tigri” e di sradicare la corruzione dal centro finanziario di Shanghai. Da allora ogni nuovo leader ha dichiarato guerra alla corruzione. Una guerra che però si esauriva in breve tempo e non toccava mai i vertici della piramide politica. Ma nell’era Xi Jinping è avvenuto il contrario.
La Commissione centrale per le ispezioni disciplinari guidata da Wang Qishan, sodale del presidente fin dalla gioventù, si è accanita proprio sugli alti funzionari. E poiché è uno strumento interno al Partito, la sua attività è avvolta da totale segretezza. Agisce sui suoi membri attraverso lo shuanggui ovvero una sorta di misura di detenzione extralegale senza limiti temporali né procedura stabilita. I funzionari che vi incappano in teoria devono semplicemente mettersi a disposizione dell’indagine interna. Ma in pratica vengono costretti a confessare qualunque crimine, con conseguente espulsione dal Partito e consegna al pubblico ministero. E, senza dubbio, corruzione e abuso di potere sono le accuse più semplici da denunciare per evitare che l’opinione pubblica venga a conoscenza di ‘sordidi dettagli’, ovvero intrighi e giochi di potere che ‘macchierebbero’ in maniera indelebile l’immagine del Partito.
Così hanno arrestato Bo Xilai, l’ex principino rosso che sembrava destinato a diventare il novello Mao. E, più recentemente, il generale in pensione Xu Caihou, già membro del Politburo, vice presidente della Commissione militare centrale e incaricato di supervisionare le nomine all’interno dell’Esercito popolare di liberazione. Ma Xi Jinping punta più in alto. Zhou Yongkang, la "tigre" a cui da più di un anno a questa parte stanno togliendo tutti i denti. L’ex zar dei servizi di sicurezza cinesi, il potentissimo numero 9 che nella scorsa nomenklatura era a capo della Commissione militare è sotto indagine. La notizia è stata ufficializzata ieri, ma già un gran numero di suoi collaboratori erano stati arrestati. E ben 10,5 miliardi di euro sono stati confiscati ai suoi parenti e sodali.
Dopo il periodo di purghe che ha contraddistinto la Rivoluzione culturale, nessun membro del Comitato permanente del Politburo è mai stato messo sotto indagine. Xi Jinping ha di fatto rotto il tacito accordo a non indagare i propri membri preso dalla classe dirigente dopo il periodo maoista. Gli ex presidenti Jiang Zemin e Hu Jintao lo hanno avvertito: forse la sua lotta alla corruzione si sta spingendo oltre, mettendo in pericolo l’esistenza stessa del Pcc. Ma forse l’attuale presidente ragiona anche in termini politici. I potenti funzionari messi sotto indagine sono stati suoi acerrimi nemici nella scalata al potere. E, come la tradizione cinese insegna, “una montagna non può ospitare due tigri”.
[Scritto per il Fatto Quotidiano; foto credits: scmp.com]