La Cina è il grande promotore della Brics Development Bank, che è l’approdo dopo una lunga navigazione attraverso la acque tormentate della crisi economica globale. L’obiettivo di Pechino è duplice: emanciparsi dalla dittatura del dollaro e dare status internazionale allo yuan/renminbi. Anche in economia, si punta a un mondo multipolare. Fate che il sistema di Bretton Woods sia Chiang Kai-shek e la Brics Development Bank il soviet di Yan’an; in mezzo, la “lunga marcia” per sfuggire alle grinfie del primo e fondare il mondo nuovo, ben rappresentato dalla seconda.
Fuor di metafora: la Cina non è solo il Paese che ospiterà la neonata banca dello sviluppo targata Brics (a Shanghai) e che metterà la quota maggiore nel parallelo fondo d’emergenza (41 miliardi); è anche quello che ha concepito e promosso con più forza il sistema economico alternativo emerso dal vertice delle economie emergenti di Fortaleza.
Giova ricordare alcune date.
Xi Jinping e Li Keqiang si insediano nelle vesti di presidente e premier cinesi a metà marzo 2013 e subito dopo il neopresidente parte per un viaggio in Russia, Africa e al summit Brics di Durban, dove lancia il progetto di banca dello sviluppo. Nel giro di un anno, diventa realtà.
La "lunga marcia" era in realtà cominciata fin dalla crisi del 2008-2009, quando la svalutazione competitiva decisa dagli Usa aveva inferto un duro colpo alle riserve valutarie in dollari della Cina. Fino a quel momento, funzionava piuttosto bene quel ciclo virtuoso definito dal sociologo filippino Walden Bello “economia dei galeotti incatenati” (chain-gang economics): la Cina “fabbrica del mondo” inonda gli Usa e l’Occidente di merci a buon mercato (che, per inciso, hanno funzione disinflattiva e contribuiscono a rivalutare i nostri salari); gli americani si indebitano ed emettono bond; la Cina ricompra il debito Usa e riempie i propri forzieri di riserve valutarie, che a oggi ammontano a circa 4mila miliardi di dollari.
Poi, arriva il disastro subprime e, nel 2009, la Federal Reserve di Bernanke decide di stampare moneta e di svalutare il dollaro per rilanciare l’economia domestica: questo semplice clic nella stanza dei bottoni Usa determina per le riserve cinesi una perdita che oggi dovrebbe aggirarsi sui 150 miliardi di dollari.
Da quel maledetto 2009, Pechino ha un chiodo fisso: emanciparsi dalla dittatura del dollaro e delle istituzioni finanziarie globali dominate dall’Occidente. Da un lato cerca di averci più voce in capitolo, in quelle istituzioni, ma dall’altro coltiva le alternative. E i Brics sono l’approdo naturale.
Il primo a suonare le trombe è il governatore della banca centrale cinese, Zhou Xiaochuan, che nel 2009 propone di sostituire il dollaro, come moneta di riserva universale, con una supervaluta controllata dal Fondo Monetario Internazionale: lo Special Drawing Right (Sdr, "Diritti Speciali di Prelievo", in italiano). La proposta incassa l’apprezzamento dello stesso Fmi e di parecchie economie emergenti. Resta sullo sfondo, ma resta.
Nel maggio 2011, lo stesso Zhou è tra i candidati cinesi alla successione di Dominique Strauss-Kahn come direttore del Fmi, dopo lo scandalo sessuale che porta alle dimissioni del francese. L’altro candidato indicato da Pechino è Zhu Min, già consigliere dell’ex direttore e quindi già inserito nei meccanismi dell’istituzione che detta ricette neoliberiste al mondo.
Alla fine la spunta Christine Legarde, ma l’azione di disturbo cinese, in realtà, mira ad altro: più peso decisionale per le economie emergenti, che Pechino considera una garanzia di stabilità contro la finanza speculativa che ha portato alla crisi globale.
Al G20 dell’ottobre 2010, tale linea aveva già ottenuto un primo successo, con l’attribuzione alla Cina di maggiori diritti di voto in seno al Fmi (dal 4 per cento al 6,39) e la cessione di due seggi già europei ai Paesi emergenti nel consiglio dell’organizzazione. In questo “attacco” al Fmi, la Cina recita la parte di capofila dei Paesi emergenti più che di parvenu nel club dei potenti. Una linea che utilizza a seconda della convenienza fino a oggi.
Mentre punta alla stanza dei bottoni, la Cina continua a colpire il dollaro ai fianchi. Nel 2010, nasce la Dagong, agenzia di rating cinese alternativa alla cupola composta da Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch. Da subito, l’agenzia chiarisce che i suoi criteri per valutare la solvenza degli Stati sono un po’ diversi da quelli in voga, perché tengono maggiormente conto sia dell’effettiva capacità di creare ricchezza sia dell’ammontare delle riserve di un Paese. Il primo rapporto di Dagong, pubblicato il 10 luglio di quell’anno, declassa gli Stati Uniti, facendo perdere loro la mitica tripla A (scendono ad AA), mentre Gran Bretagna e Francia scendono ad AA- e Italia, Spagna e Belgio addirittura ad A-. AA+ se lo guadagnano solo Canada, Germania e Olanda. Più la stessa Cina, ovviamente.
Nel frattempo, i nuovi accordi commerciali bilaterali tra la Cina e altri Paesi cominciano a non basarsi più su scambi in dollaro, ma nelle rispettive valute.
Comincia la Corea del Sud nel 2008, seguono altri, e nel marzo 2012 la China Development Bank avvia un sistema di scambi reciproci con gli altri Brics (Brasile, Russia, India, Sudafrica) in Renminbi e nelle altre valute nazionali. Sono movimenti che significano solo una cosa: la Cina (d’accordo con altri Paesi emergenti) intende riempire i propri e altrui forzieri di valute che non siano il dollaro. Si osservi che anche il cosiddetto “nemico” Giappone fa incetta di Renminbi: nello stesso 2012 che vede l’escalation delle tensioni per le isole Senkaku/Diaoyu, Pechino e Tokyo lanciano la negoziazione diretta nelle rispettive monete, senza intermediazione del dollaro.
Per rendere appetibile la propria valuta mantenendo al contempo il controllo sul suo valore, che non fluttua liberamente secondo valori di mercato ma ha una banda di oscillazione controllata politicamente, la Cina adotta il sistema degli “hub”: alcuni centri finanziari globali, fuori dalla Cina, sono autorizzati a scambiare i Renminbi in altre valute in base al mercato. Tra questi, Hong Kong, Singapore, Londra e Francoforte. Senza scendere in eccessivi tecnicismi, basti sapere che questo strumento permette a Pechino di internazionalizzare la propria moneta, mantenendola però al riparo dalla speculazione internazionale (Euro docet).
Nel frattempo, prosegue la politica sud-sud di Pechino che, nell’autunno del 2013 si traduce nei viaggi di Xi in Asia centrale – dove stringe nuovi accordi energetico-commerciali e lancia il grande progetto di una rinnovata Via della Seta fatta di gasdotti, oleodotti e vie di comunicazione – e nel Sudest Asiatico, dove promuove l’idea di una grande area di libero scambio e lancia la proposta di una banca asiatica delle infrastrutture.
Una banca, ancora: sarà una filiazione della nuova Brics Development Bank o un istituto diverso? Vedremo. Va però osservato che pure questo istituto è funzionale al finanziamento di infrastrutture, vero cavallo di battaglia per Pechino. Perché non bisogna dimenticare che il maggiore azionista della nuova “banca dello sviluppo” finanzia soprattutto se stesso: sono cinesi le imprese che costruiscono strade e ponti in tutto il mondo; sono cinesi le ferrovie veloci “pret-à-porter” esportate nei Paesi in via di sviluppo.
Prima di Fortaleza, la consacrazione della politica che compenetra la creazione di un blocco economico alternativo a quello Occidentale con l’internazionalizzazione graduale dello yuan si consacra con l’accordo con la Russia del 21 maggio scorso, quello sul gas. Un patto che fonda quel sistema economico politico già battezzato Eurasia e di cui i media stimano il valore complessivo in “400 miliardi di dollari”; quello è il valore nominale, ma di fatto i due Paesi si accordano per commerciare in rubli e yuan.
Naturalmente, il dollaro rimane la maggiore valuta globale. A fine 2013, secondo il Fmi, rappresentava ancora il 33 per cento delle riserve valutarie mondiali. Si ricordi però che nel 2000 quella quota ammontava a ben il 55 per cento. Nessuno conosce la percentuale di yuan stipati a oggi nei forzieri globali, ma lo stesso Fmi ritiene che le riserve in “altre valute” all’interno dei mercati emergenti siano cresciute del 400 per cento dal 2003; e il valore degli scambi transfrontalieri in renminbi/yuan è stato di 3.270 miliardi di yuan (531.150 milioni dollari) nel primo semestre del 2014, in crescita di 1.220 miliardi di yuan anno su anno, secondo gli ultimi dati della banca centrale cinese.
Ora, Pechino sta lavorando alla piena convertibilità della sua moneta, prevista per il 2018. Quella sarà la prossima tappa. Yukon Huang, ex direttore della Banca Mondiale (guarda un po’) per la Cina, ci ha detto che lui investirebbe i suoi risparmi in Renminbi: "A tempo debito, lo yuan sarà pienamente convertibile e il suo valore è destinato a crescere". Se lo dice lui.