La nascita della Banca di sviluppo dei Brics è destinata a scardinare il monopolio di Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale, che in passato hanno combinato – spesso – disastri nelle economie emergenti di mezzo mondo. Siamo davanti a una rivoluzione copernicana del credito mondiale? Abbiamo studiato un po’ e proviamo a spiegarvelo.
Il 16 luglio a Brasilia è stata scattata una foto potenzialmente profetica. Putin, Modi, Rousseff, Xi e Zuma – i cinque leader dei Brics – sorridono in macchina in differenti tonalità di relax (il presidente cinese e quello indiano, tra i cinque, si contendono il titolo dei più ingessati). Intorno, i rappresentanti della Union of South American Nations (Unasur), invitati dalla presidentessa brasiliana ad incontrare il pugno di capi di Stato decisi a scardinare, nei fatti, una consuetudine geopolitica alla quale ci siamo tutti abituati sin dal secondo dopoguerra.
Dagli accordi di Bretton Woods (luglio 1944), il sistema entro il quale le economie mondiali si sono mosse, scontrate, hanno prosperato o tentato di sopravvivere, è sempre stata una galassia dollaro-centrica. Gli Usa, fissando il primato valutario negli interscambi mondiali, hanno guidato il resto della comunità internazionale lungo il sentiero del capitalismo, superando la minaccia dell’Urss e assicurandosi i privilegi del centro della costellazione: autorità e indispensabilità.
Chi è cresciuto, l’ha fatto intercettando i raggi di Washington. Chi voleva crescere, o salvarsi, ha provato a farlo bussando alle uniche porte aperte a tutti: Banca Mondiale e Fondo monetario internazionale (Fmi). Fondate e operative dal 1945, per oltre mezzo secolo hanno rappresentato l’ultima spiaggia creditizia, la cavalleria che arrivava strombazzando col mandato di sanare l’insanabile. A fronte, si intende, di un obolo oneroso e non negoziabile.
Nella prefazione a La globalizzazione e i suoi oppositori (Einaudi, 2002) – un dettagliato e illuminante compendio dei disastri causati dalle politiche dell’Fmi in mezzo mondo – il premio Nobel per l’Economia Joseph Stiglitz lo spiega così:
Quando sopraggiungevano le crisi, l’Fmi prescriveva soluzioni «standard» sorpassate e inadeguate, senza considerare gli effetti che queste politiche avrebbero avuto sui paesi che dovevano adottarle. […] La ricetta era una, e unica. Non si cercavano né si chiedevano altre opinioni. […] Alla base delle indicazioni politiche c’era l’ideologia e i paesi dovevano seguire le direttive dell’Fmi senza discutere. Questi atteggiamenti mi disorientavano. Non solo producevano spesso risultati scadenti; erano anche antidemocratici.
E ancora:
I problemi che affliggono i paesi in via di sviluppo sono complessi e l’Fmi viene interpellato nelle situazioni peggiori, quando il paese sta affrontando una crisi. Ma i rimedi che si sono rivelati fallimentari sono forse più numerosi di quelli che hanno funzionato. Le politiche di adeguamento strutturale dell’Fmi […] hanno portati alla fame e alla sommossa molti popoli. E anche quando i risultati non sono stati così disastrosi, quando i provvedimenti hanno favorito una crescita temporanea, spesso ne hanno tratto vantaggio solo i più abbienti, mentre i poveri sono diventati ancora più poveri.
Era l’inizio del millennio e, senza spingersi fino all’ecatombe socioeconomica perpetrata nel continente africano, gli esempi plastici dell’inadeguatezza salvifica dell’Fmi li ritroviamo ciclicamente nei titoli dei nostri giornali: Grecia, Argentina, Bangladesh, repubbliche ex sovietiche e via dicendo.
Ma la notizia uscita dal sesto meeting dei Brics in Brasile è che il monopolio di Banca Mondiale e Fmi nella gestione delle crisi globali potrebbe presto appartenere al passato.
L’alternativa si chiama ufficialmente New Development Bank (Ndb), ma la conosceremo come la Banca dello sviluppo dei Brics, “l’organizzazione delle economie emergenti per aiutare le economie emergenti”. I leader di Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica hanno firmato una serie di accordi operativi che battezzano la nuova banca. Avrà sede a Shanghai, il primo direttore sarà indiano – a rotazione toccherà agli altri quattro – e partirà con un capitale di 50 miliardi di dollari fornito in parti uguali dai cinque paesi membri.
Ma, soprattutto, con un fondo d’emergenza di 100 miliardi di dollari (41 da Cina, 18 da India, Brasile e Russia, 5 dal Sudafrica) i Brics rappresenteranno la concorrenza effettiva alla provvidenza del Fmi. L’economia arranca e hai bisogno di aiuto? Lascia perdere l’Fmi e vieni da noi.
Buoni propositi e rischi di un gruppo troppo eterogeneo
La banca dei Brics promette prestiti e know-how a misura di economia emergente, un’opzione che – non a caso – è stata presentata proprio in America Latina, dove Cina, Russia e India stanno concentrando i propri investimenti per uscire fuori crisi economica che ha colpito anche le “nuove” superpotenze (l’India, in particolare, falcidiata a tassi di crescita sotto il 5 per cento pericolosissimi per la gestione di 1,3 miliardi di persone). Ma l’affascinante comunione di intenti sancita a Fortaleza non potrà non fare i conti con le disparità enormi interne ai Brics, un gruppo nato per genesi eterodiretta.
L’economista Jim O’Neill, all’epoca in forza a Goldman Sachs, coniò il termine Bric nel 2001 – il Sudafrica si aggiungerà al gruppo solo nel 2010 per “ampliare la rappresentanza anche al continente africano” – per indicare agli investitori i mercati del futuro, di fatto mettendo le basi per il miracolo economico del nuovo millennio.
Prima d’ora questi paesi avevano ben poco in comune e ancora oggi i Brics rimangono una sigla evocativa buona per la semplificazione giornalistica, che appiattisce le criticità interne al gruppo.
La scorsa settimana il magazine online Scroll.in aveva messo in fila dieci indicatori delle enormi differenze in seno ai Brics.
Popolazione (Cina e India staccano enormemente gli altri), tassi di crescita (Cina 7,7, Russia 1,3), Pil pro capite (Russia 14.612 dollari, India 1.499), alfabetizzazione (tutti sopra il 90 per cento tranne l’India, intorno al 70), investimenti stranieri nel paese (la Cina da sola ne attira più del doppio degli altri quattro insieme). Se ne deduce la fisionomia di una Cosa che difficilmente potrà coniugare la risoluzione dei propri rispettivi problemi nazionali con una politica economica unitaria sviluppata consensualmente all’interno del gruppo.
Prendiamo per esempio il Pakistan, potenziale questuante alla corte dei Brics, dove Cina e India agiscono – politicamente ed economicamente – in un plateale regime di concorrenza: come decidere quanti soldi dare? A chi affidare appalti, cosa chiedere in cambio e a chi destinare la contropartita? Come gestire le conseguenze politiche?
Il timore, esposto a stretto giro dalla firma di Fortaleza sulle pagine dell’indiano Business Standard, è che la Banca dei Brics diventi la copertura media friendly di cui si servirà la Cina per continuare a badare ai propri interessi nei paesi in via di sviluppo. Ma usando anche i soldi degli altri quattro.
Non si può negare, la Cina è di fatto l’unico collante del gruppo. È il paese uscito meno peggio dalla crisi. È il più ricco e primo contributore nel fondo d’emergenza della Banca. Ha fatto da traino alla crescita – un fuoco di paglia – del Sudafrica, che ha alimentato la locomotiva cinese affamata di materie prime. Ha recentemente chiuso uno storico accordo trentennale di fornitura con Gazprom (400 miliardi di dollari per assicurarsi il gas naturale russo). Dal 2009 è il primo partner commerciale di Brasilia (80 miliardi di dollari di interscambio), si prepara ad aiutare Rousseff nelle opere di modernizzazione infrastrutturale del paese e, con la vittoria alle elezioni indiane di Narendra Modi, si dice pronta a contribuire alla ripresa economica di Delhi, seguendo il modello ultracapitalista applicato nello stato del Gujarat.
Pechino, inoltre, negli ultimi anni ha guidato le proteste dei paesi emergenti che chiedevano l’applicazione di riforme nel sistema decisionale di Banca Mondiale e Fmi, riproponendo all’interno delle organizzazioni i rapporti di forza vigenti nella realtà economica mondiale: i Brics rappresentano il 42 per cento della popolazione mondiale e, considerando la variabile del potere d’acquisto, oltre il 30 per cento del Pil mondiale. È inaccettabile, secondo le economie emergenti, che Banca Mondiale e Fmi rispondano ancora a logiche (e direttori) occidentali.
L’inazione davanti alla richiesta di cambiamento ha messo le basi per la nascita della concorrenza, una Banca dei Brics che, secondo il modus operandi cinese, riuscirà dove altri hanno fallito: creare ricchezza inclusiva con la minima ingerenza politica, all’insegna del win-win per aiutanti e aiutati.
La teoria è ambiziosa e insidiosa e sarà interessante misurare la distanza tra le parole e la pratica.
Ma dalla metà di luglio del 2014 una cosa è certa: il sistema eliocentrico occidentale di Bretton Woods dovrà fare i conti con una nuova stella.
[Scritto per Pagina99 online; foto credit: facebook.com]