I rapporti Italia-Cina tra il ’49 e il ’70

In by Simone

Nel 1949 mentre l’Italia entrava nel patto atlantico, la Repubblica popolare sceglieva il modello sovietico. Le difficili relazioni tra i due paesi  negli anni Cinquanta e Sessanta. E le azioni portate avanti da personalità di spicco come Pietro Nenni, Amintore Fanfani e Enrico Mattei in un momento in cui lo stato italiano riconosceva Taiwan e non la Cina.
Alla fine della seconda guerra mondiale Italia e Cina qualcosa in comune lo avevano: erano state entrambe teatri del conflitto con un’industria devastata e guardavano a una ricostruzione non solo politica ma anche economica. Le differenze si sarebbero mostrate altrettanto nette: nel 1949, mentre Roma entrava nel patto atlantico guidato dagli Stati Uniti, Pechino sceglieva il modello sovietico con la vittoria di Mao.

Entrambi questi Paesi, però, avrebbero presentato almeno un’analogia negli anni Cinquanta: la ricerca di ruolo nuovo nella politica estera mondiale e nel proprio contesto regionale.

Molti erano i punti di distanza. La Repubblica italiana non riconosceva ufficialmente il nuovo governo comunista preferendo i nazionalisti di Chiang Kai-shek, rifugiatisi a Taiwan sotto la protezione statunitense. La Repubblica popolare cinese ricambiava e, ad esempio, aveva sequestrato gli immobili che erano stati sede delle ambasciate italiane.

La vicenda di Antonio Riva, fascista rimasto in Cina dopo la proclamazione della repubblica comunista e condannato a morte per complotto contro Mao, era soltanto la prima fra le questioni irrisolte che, puntualmente, emergevano quando al Ministero degli affari esteri italiano si valutavano pro e contro di un eventuale riconoscimento.

Fu Pietro Nenni, segretario del Psi, che affrontò questi dissidi recandosi in Cina nel 1955. Il leader socialista era attratto dal carattere alternativo del comunismo cinese, apparentemente immune dalle degenerazioni sovietiche, ed è a lui che si deve la liberazione di Quirino Gerli, un altro personaggio coinvolto nell’affare Riva ma condannato alla prigionia. Su quest’ultimo faticava a reperire informazioni la stessa Farnesina, che pure aveva messo sulla pratica l’ex console di Tianjin, Mario Filo della Torre.

Anche il problema dei beni requisiti fu affrontato da Nenni direttamente con Zhou Enlai, premier e ministro degli esteri. Né mancano riferimenti, seppur limitati, alla difficile situazione del clero cattolico cinese, il terzo nodo principale fra quelli rintracciabili nelle carte ministeriali. Come appunta Nenni nei suoi diari, con i cinesi è possibile discutere di tutto «quando sia risolta la questione pregiudiziale che non ci sono due Cine»: quel che il Partito comunista chiedeva, insomma, era la completa rottura dei rapporti con gli avversari nazionalisti di Taiwan.

Non sembra allora un caso che, prima di partire, Nenni avesse avuto un colloquio con il ministro degli Esteri, Gaetano Martino. Soltanto alla Farnesina il segretario del Psi poteva avere preso coscienza delle questioni pendenti che, apparentemente, impedivano un dialogo normale. Il governo di Pechino aveva tutto l’interesse a ottenere il riconoscimento diplomatico di un Paese del blocco avverso, ma quale poteva essere il guadagno per un governo filo-americano come quello italiano di allora?

In effetti, al suo ritorno, Nenni trovò un Martino improvvisamente reticente: l’effimera attenzione del governo per Pechino sembrerebbe allora essere legata ad altre motivazioni e, in particolare, all’ingresso dell’Italia nelle Nazioni Unite. Il processo in questione era gravato dalla minaccia di veto del governo di Taiwan, che sedeva nel Consiglio di sicurezza dell’Onu e voleva impedire la concomitante entrata della Mongolia, un altro territorio rivendicato dai nazionalisti di Chiang Kai-shek.

La storia di questo fiasco non deve però ingannare: un’altra parte della Democrazia Cristiana si presentava più disponibile nei confronti della Cina comunista. Era quella guidata da Amintore Fanfani, presidente del consiglio nel 1958, affiancato da personaggi del calibro di Giorgio La Pira ed Enrico Mattei.

Il primo, estroso intellettuale e sindaco di Firenze, aveva compiuto il gesto di invitare il primo cittadino di Pechino al suo Convegno dei sindaci delle capitali mondiali (1955), proposta effettivamente accettata dal viceministro della cultura Zhang Zhixiang. Nella Dc fece scalpore questa scelta, specie perché suggellata dalla battuta secondo cui «se la Repubblica italiana non riconosce la Repubblica popolare cinese, intende farlo la Repubblica di Firenze!». Allo stesso modo, Mattei volava nel 1958 a Pechino come presidente dell’Eni firmando contratti di esportazione e avviando progetti per interi impianti petrolchimici.

È curioso come il Partito comunista cinese fosse ben consapevole della diversità interna alla Dc. Nel 1955 il Quotidiano del popolo, organo di stampa ufficiale, riconosceva come la Democrazia Cristiana, pur rappresentando «il capitale monopolistico», includesse un gruppo «cosidetto di sinistra». Venivano espressamente nominati La Pira e Giovanni Gronchi, allora presidente della Repubblica. Una capacità analitica della multiforme politica italiana non scontata, che per i cinesi significava il riconoscimento di un terreno di dialogo comune.

Dietro queste iniziative esisteva un humus ricco e trasversale. Il viaggio di Nenni fu preparato da Dino Gentili, intraprendente trader che, fin dal 1952, mediava fra mercato italiano e cinese, promuovendo il commercio con un Paese le cui dimensioni sembravano offrire sostanziose opportunità di profitto sul lungo periodo. Il Centro studi per lo sviluppo relazioni economiche e culturali con la Cina, fondato da Ferruccio Parri nel 1953, preparava viaggi, organizzava eventi e pubblicava una rivista sui progressi della “Nuova Cina”.

Quanto di esotico vi era in tutto ciò? Il carattere alternativo ricercato da Nenni aveva una connessione molto concreta con la ricerca di un’identità nuova del Partito socialista. L’Unione sovietica veniva vista come una sola fra le possibili realizzazioni del socialismo mentre il partito di Nenni intendeva rappresentare l’alternativa al modello russo, un’idea che allontanava sempre più il Psi dai comunisti di Togliatti e che culminò nella rottura dopo la repressione sovietica in Ungheria (1956).

Anche la Cina cercava una sua autonomia da Mosca e la questione si sarebbe fatta scottante dopo la condanna dei crimini staliniani da parte di Krusciov (1956) e dopo la rottura con l’Urss (1960). Nel frattempo, la politica neoatlantista del primo governo Fanfani proponeva la strategia di un’Italia come punto di incontro tra Occidente e Oriente. Non solo Pechino, ma anche Pechino.

Sarebbero stati i governi di centro-sinistra che, negli anni Sessanta, avrebbero visto ancora in gioco queste forze e avrebbero normalizzato le relazioni italo-cinesi nel 1970. La storia finora ripercorsa suggerisce qualcosa di più di una moda passeggera. Eppure, quanta strada hanno fatto Italia e Cina da allora? Oggi, i rapporti fra i nostri due Paesi devono ancora spiccare il volo e i professori Guido Samarani e Laura De Giorgi hanno parlato di una “potenzialità inespressa” che pone nuove domande e indica sentieri inesplorati alla ricerca.

*Lorenzo M. Capisani è dottorando in Scienze storiche presso l’Università Cattolica di Milano. Qui nel 2011 si è laureato in Storia della Cina contemporanea con una tesi su "Italia e Cina negli anni Cinquanta". Ha quindi studiato, lavorato e viaggiato in Cina per tutto il 2012. Al suo ritorno ha avuto esperienze professionali diverse pubblicando al contempo due saggi legati alla tesi e, nell’ottobre 2013, ha vinto un bando come ricercatore presso l’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale). Dopo vari rinnovi, dal giugno 2014 si è dedicato prevalentemente al dottorato, a cui era stato ammesso in dicembre. Studia il passaggio della Cina dall’impero alla nazione ed è in vista un ritorno per una ricerca sul campo.