Un paio di settimane fa, ha avuto grande risalto sulla stampa occidentale la notizia secondo cui una donna nordirlandese avrebbe trovato in una tasca di un paio di pantaloni una richiesta d’aiuto scritta in cinese. Ci si è scagliati immediatamente contro i famigerati laojiao (campi di lavoro), dove chi è detenuto amministrativamente (cioè senza processo) lavora in condizioni di schiavitù. È il caso di fare alcune precisazioni. Il foglietto rinvenuto all’interno dell’indumento recitava: “SOS! SOS! SOS! Siamo prigionieri nel carcere di Xiangnan in Hubei, in Cina. Produciamo da tanto tempo abbigliamento destinato alle esportazioni. Lavoriamo 15 ore ogni giorno. Ciò che mangiamo è peggio del cibo per maiali e cani. Il lavoro che facciamo è simile a quello che fanno buoi e cavalli. Esortiamo la comunità internazionale a denunciare la Cina per questo atto disumano”.
Immediatamente la mente è corsa al famigerato "laogai" (in realtà "laojiao") il sistema dei campi di lavoro cinesi destinati a chi viene detenuto amministrativamente (cioè senza processo o in attesa di esso). E il responsabile nordirlandese di Amnesty International si è spinto a dire che probabilmente “questa è solo la punta dell’iceberg”, come riporta la Bbc.
Karen Wisinska, la donna che ha rinvenuto il messaggio d’aiuto nei pantaloni è rimasta sotto shock e si è sentita male ad apprendere che il suo indumento “è stato probabilmente fabbricato in una prigione cinese, in condizioni di schiavitù”.
Vanno specificati alcuni punti.
Wisinska aveva comprato i pantaloni nel 2011, senza mai indossarli fino a oggi “perché avevano la lampo rotta”, non accorgendosi quindi per quattro anni del biglietto inserito nell’indumento. Primark, la catena di vendite al dettaglio anglo-irlandese dove era avvenuto l’acquisto, dichiara che i pantaloni facevano parte di una partita che risaliva al 2009. Afferma inoltre di avere condotto di recente almeno nove ispezioni nella manifatture dei propri fornitori cinesi, non riscontrando episodi di lavoro schiavistico et similia.
Sia chiaro. Il fatto che sui nostri scaffali si commercializzassero merci prodotte nei campi di lavoro cinesi è già emersa in passato. Nel 2012 un analogo bigliettino – questa volta scritto in un inglese traballante – fu trovato in una confezione di decorazioni di Halloween vendute negli Stati Uniti nel 2011. Era apparentemente scritto da un adepto della setta del Falun Gong (vietata in Cina) detenuto nel campo di Masanjia, nel Nordest cinese, che al momento del ritrovamento si trovava però in libertà a Pechino.
Lo stesso anno, Al Jazeera English aveva svolto una vera e propria inchiesta intervistando numerosi ex detenuti nei laogai e raccogliendo testimonianze circa il lavoro “non retribuito” che svolgevano nei campi di lavoro: beni rivenduti poi illegalmente in Occidente. Il servizio costò all’emittente del Qatar l’espulsione dalla Cina.
Nell’estate del 2013, un’altra inchiesta, questa volta della rivista cinese Lens, aveva puntato i riflettori proprio sul campo di Masanjia. Dopo la pubblicazione, la rivista fu chiusa.
La Cina ha abolito la “rieducazione attraverso il lavoro” (laogai e poi laojiao) alla fine del 2013, nell’ambito delle riforme lanciate dal Terzo Plenun del Partito.
Erano un’istituzione di epoca maoista nata paradossalmente con l’intento di “dare una possibilità” a chi avesse sbagliato e tramutatasi presto in uno strumento di persecuzione e arbitrio.
Oggi, non è semplicemente più adatta a un Paese che si immagina abitato da un ceto medio diffuso, soddisfatto e consumista e non da masse inquadrate in produzioni banali destinate all’export. La Cina di oggi non vuole più essere una fabbrica in formato istituzione totale o viceversa. Ci sono testimonianze di campi effettivamente chiusi, a cui fa da riscontro tuttavia l’assenza di un documento ufficiale che renda noto un calendario e una pianificazione. Ma è evidente che, se c’è da arrestare qualcuno, non è più così necessario fargli anche cucire blue jeans.
La storia della signora Wisinska appare quindi come una probabile “non notizia” per quanto riguarda la Cina.
Tutt’altro discorso è invece quello che concerne la responsabilità delle grandi catene commerciali. I media anglosassoni hanno infatti ripreso la notizia mettendola un po’ arbitrariamente in correlazione con la strage dell’aprile 2013 a Rana Plaza, in Bangladesh, dove 1.138 lavoratori morirono a causa del crollo della fabbrica dove producevano indumenti per il mercato occidentale. Primark era tra le catene che si rifornivano in quella manifattura e – riporta il Guardian – ha pagato un risarcimento alle famiglie delle vittime “a differenza di altre”. Il problema riguarda dunque la catena delle forniture e subforniture e il cosiddetto “consumo etico”.
Ma questo è un’altra storia e, probabilmente, la Cina vi è oggi implicata più per gli acquisti del suo nuovo ceto medio – avido di brand d’ignota e dubbia provenienza al pari del suo omologo occidentale – che per l’offerta di lavoro coatto in condizioni di schiavitù.
[Scritto per Lettera43]