Il cinema è da sempre fucina di stereotipi e di “tipi”, non fosse altro per certa sua primigenia contiguità con la letteratura. Ma cosa accade se i poli dello schema Sensei Orientale pro Allievo Occidentale venissero rovesciati? La risposta è Sogni di gloria, film con il quale il collettivo pratese John Snellinberg ha vinto diversi festival.
La tradizione orientalista occidentale ha certo inventato più di un personaggio con le fattezze e le presunte qualità di un cinese, o di un giapponese. Il Settecento elesse il Saggio cinese come rappresentante di una società giusta, meritocratica, nella quale il Mandarino – altro personaggio eletto – incarnava il massimo grado della sapienza al servizio dello Stato. Figure in carta e ossa, si potrebbe dire, frutto del perpetuo distillare, da parte europea, di figure utili a confermare la propria idea preconcetta di coloro che vivevano, in buona sostanza, su un altro pianeta.
Stessa sorte per la Geisha, conosciuta nelle sue fattezze peculiari dalle copie delle stampe di Utamaro che nella seconda metà dell’Ottocento fecero impazzire la Francia, donna tutta di carta e luce irreale, la quale parlava di un Giappone che già ai tempi di Manet, Monet, Renoir e Van Gogh (grande appassionato di ukyio-e), nella pratica non esisteva più. E che dire del Ninja, del Samurai, del Boxer cinese, del Monaco buddista e di quello shintoista? Declinazioni dello stesso vizio di forma, persone – maschere – riadeguate al sogno occidentale del magico Estremo Oriente.
Fucina di stereotipi, o meglio di “tipi” – banale a dirsi –, è da sempre stato il cinema, non fosse altro per certa sua primigenia contiguità con la letteratura. Non si contano i personaggi cinesi e giapponesi nella storia del cinema occidentale: non si contano, certo, ma nel quadro piccolo di un “tipo”, forse, una timida tassonomia si potrebbe anche tentare. Manca dall’elenco, comunque incompleto, trascritto qualche riga su, la figura del Sensei, il maestro di vita e di esperienza tecnica nell’apprendimento delle arti marziali.
Le recenti generazioni di consumatori di cinema, manga, novel story, più o meno consapevolmente hanno sviluppato una qualche familiarità con una simile figura. Al di là della filologia – ma l’orientalismo di per sé non è mai filologico –, della verità storica, il Sensei è colui che di fatto eleva l’allievo capace, a volte addirittura “eletto”, perché compia la sua missione, pratichi la sua vendetta.
Così, senza un’indagine che scandagli i territori del cultismo selvaggio e inesplorato dai più, subito appare alla mente una declinazione assai folta del personaggio in questione, soprattutto nella giostra iperbolica del cinema statunitense. A noi interessa ora, tra i molti, il Sensei maestro di lotta e di armi di un discepolo occidentale. Ultimo – ma non ultimo – della serie senza dubbio il Pai Mei Sopracciglio Bianco riesumato da Tarantino nel secondo volume di Kill Bill.
Il personaggio inventato nella officina gongfupian di Hong Kong, per conto dei produttori meglio noti come Shaw Brothers, e apparso per la prima volta in pellicole in odore di mitologia come I distruttori del tempio Shaolin (1977) e Il clan del Loto Bianco (1980), nella versione tarantiniana diventa appunto maestro della Sposa, affinché quest’ultima possa apprendere un frammento della perfezione marziale di cui il longevissimo Pai Mei è portatore.
I tormenti pedagogici del Maestro Kesuke Miyagi, sensei nella pellicola Per vincere domani – The Karate Kid (1984), sono ormai stati assunti nella privata memoria cinematografica di molti; così il suo profilo, meno estremo e divino di Pai Mei, è più vicino a una variante ennesima del tipo, ovvero il Maestro Nascosto, figura di orientale bizzarro, dal passato più o meno oscuro, che sembrerebbe assimilato ormai ai costumi occidentali, fino a quando però un evento non scateni la riemersione di quanto era stato represso.
Meno borghese, in tal senso, la figura della copia italiana del film di Avildsen, ovvero il Maestro Kimura, aiutante di Anthony Scott – Kim Rossi Stuart ne Il ragazzo dal kimono d’oro. Kimura si è allontanato dalla civiltà, aspirante eremita della jungla filippina, deluso dagli occidentali che apprendono le arti marziali solo per farne arma letale contro i più deboli.
Tanto per tornare a Tarantino, Hattori Hanzo, maestro di spada, cessa di fabbricare i suoi strumenti letali più o meno per la stessa ragione. D’altra parte Pai Mei decide di insegnare – perché meritevole – la Tecnica dell’esplosione del cuore con cinque colpi delle dita alla sua allieva Uma Thurman, Miyagi tramanda a Daniel la Tecnica della Gru, e non ultimo Kimura insegna a Kim Rossi Stuart il Colpo del Drago.
Costanti che riemergono con fattezze più o meno similari, e che intersecano a volte varianti significative come capita in Furia cieca, sorta di Zatoichi yankee, dove il cieco Rutger Hauer viene avviato alla conoscenza delle tecniche marziali da un collettivo di maestri vietnamiti, i quali insegnano all’ex soldato Nick Parker a trasformare la sua menomazione agli occhi in un’arma raffinata e letale.
Un mero assaggio di quanto si potrebbe tessere, ma al di là del tipo vi è – inevitabilmente – il canovaccio, una sorta di schema narrativo che si ripropone nella sostanza identico, cadenzato, lo stesso che consente all’uditore, spettatore, consumatore un alto tasso di riconoscibilità, assimilabile in qualche modo alla tecniche in uso nell’epica e nella letteratura cavalleresca. Lasciamo quindi da parte per un solo attimo la figura del Sensei, e rivolgiamo l’attenzione alla trama, alle trame, che vedono agire simili figure.
A questo punto è necessario un funambolico salto all’indietro verso la tradizione wuxiapian tesa tra Singapore e Hong Kong, in cui maestri spadaccini leggeri come il vento si scontrano con la terribile violenza dei loro tempi, ma spesso anche contro forze avverse venute direttamente dagli inferi; e così verso l’evoluzione del wuxiapian, il già citato gongfupian, maggiormente concentrato sul corpo a corpo, sulla lotta a mani nude, la cui perla è The chinese boxer (1970) del regista-attore Yu Wang, distribuito in Italia con il titolo La morte nella mano.
Pellicola che lancia, appunto, un plot antico e nuovo insieme: un aspirante combattente è ossessionato dalla vendetta nei confronti di colui, o di coloro che hanno ucciso qualcuno a lui caro (in questo caso il proprio maestro). Tuttavia, per poter essere all’altezza del nemico, egli deve acquisire una conoscenza superiore delle arti marziali, e per questo è disposto a consumare la propria rivincita anche a costo della vita. Anzi, il finale tragico è una costante del genere. Superfluo scrivere quanti film potrebbero essere riconducibili a un simile archetipo.
Data questa cornice, cosa accadrebbe se i poli di un simile schema (Sensei Orientale pro Allievo Occidentale) venissero rovesciati? Una domanda che forse si sono posti i membri del collettivo John Snellinberg quando hanno scritto il secondo episodio di Sogni di gloria, ‘movie movie’ con il quale il gruppo pratese (giunto alla meritata notorietà nel 2009 con il bellissimo La banda del Brasiliano) ha vinto quest’anno il Rome Independent Film Festival e il 47° World Fest International Film Festival di Houston.
Nel film Xiuzhong Zhang è Giulio, studente cinese di enologia in Italia (macchietta ardita e divertente), che una sera cena a casa di Maurino, Carlo Monni, maestro indiscusso delle carte caduto in disgrazia. Il vecchio Maurino si accorge del talento matematico del cinese Giulio, e decide di eleggerlo suo discepolo, nonché di erigersi a maestro di vita dello spaesato ragazzo.
Intanto Giulio soffre la sua condizione di perenne disoccupato, stretto dalla morsa di una fidanzata italiana che gli rimprovera la sua cronica mancanza di denaro, e della sua famiglia (madre e sorella) che gli imputa in modi assai poco metaforici un imperdonabile fallimento esistenziale.
La frequentazione di Maurino e la pratica pressoché quotidiana delle carte fanno di Giulio un uomo nuovo, capace di riprendersi la propria rivincita sulla vita, e di aiutare l’amato Sensei ad avere la sua vendetta contro un ex amico che anni lo aveva tradito proprio al gioco. Soggeto a metà, quindi, tra le parabole di Yu Wang e la mistica di Bud Spencer con i suoi Bomber e Bulldozer.
Il collettivo John Snellinberg è una delle realtà più vivaci che attualmente operano nel panorama cinematografico italiano. E non solo per la loro scelta di creare con estrema virtù facendo ricorso a mezzi spartani, ma per la loro puntuale identità artistica, cinefila ma attenta agli insegnamenti di Germi, aspri e cinici, con uno sguardo severo sul proprio tempo, ma con una capacità affabulatoria che nel cinema italiano degli ultimi vent’anni – con buona pace dei detrattori del genere – si è vista assai di rado.
Cosa c’è di più familiare per i pratesi John Snellinberg della comunità cinese che vive e opera a Prato? L’elemento sociale diventa così il pretesto per rovesciare un consolidato cliché: sarà il Monni sensei a perfezionare e a elevare l’arte guerriera del cinese Giulio, con esiti comici a dir poco irresistibili. Monni è Miyagi, Kimura e Pai Mei insieme, ma di segno completamente rovesciato, espediente narrativo quest’ultimo che deteriora in modo salace e impertinente una lunga tradizione di gongfupian.
L’ibrido che fiorisce da questa geniale commistione è un unicum degno di nota, anche per la puntuale maestria di Carlo Monni e la mite bravura di Xiuzhong Zhang, il quale non tirerà certo di karate o di spada, ma non per questo è meno memorabile dei tanti discepoli ascrivibili a una simile tradizione. A Prato il Sensei è ancora vivo. E altri discepoli orientali non mancheranno ad arrivare.
*Danilo Soscia è nato a Formia nel 1979. Studioso di letteratura di viaggio e di cultura cinese, vive e lavora a Pisa. Ha esordito nella narrativa nel 2008 con Condòmino (Manni). Ha curato il volume In Cina. Il Grand Tour degli italiani verso il Centro del Mondo 1904-1999 (Ets) e In Giappone. Scrittori italiani alla scoperta del Sol Levante (Ets), di prossima uscita.