L’articolo 9 della costituzione adottata da Tokyo nel 1947 dice: "Il popolo giapponese […] rinuncia per sempre alla guerra quale diritto sovrano dello Stato". In settimana Shinzo Abe ha portato a termine il progetto di abbandonare il tradizionale pacifismo costituzionale, iniziato più di dieci anni fa.
Dopo sessant’anni di onorato pacifismo, il governo giapponese ha deciso di mandare in pensione l’articolo 9 della costituzione postbellica. Almeno per come era stato conosciuto, interpretato e ammirato, in patria e all’estero, fino ad oggi.
Ora le forze giapponesi potranno prendere parte attivamente alle operazioni militari di sicurezza collettiva (ad esempio in missioni di peacekeeping sotto l’egida Onu) e avranno più margine di manovra in caso di incidenti militari etichettati come “zona grigia”, cioé non ancora evoluti in conflitti veri e propri.
Il Giappone si allinea così alle altre principali potenze internazionali nella regolamentazione dell’intervento delle proprie forze armate in nome dell’auto-difesa collettiva.
Tutto è successo martedì, nell’arco di poche ore. In mattinata, la coalizione di governo guidata dal partito liberal-democratico di Shinzo Abe ha prima trovato l’accordo sulla nuova interpretazione del dettato costituzionale, poi nel tardo pomeriggio l’approvazione del governo e infine la soddisfazione e le promesse del primo ministro: “Non importa quali siano le circostanze, proteggerò le vite e la pace del popolo giapponese”.
Parole dai toni trionfali: nonostante la crescente opposizione popolare, infatti, questa è la più importante vittoria politica per il primo ministro Shinzo Abe da quando è in carica.
Da anni Abe e una folta schiera di politici conservatori appartenenti al partito attualmente al governo il Partito liberaldemocratico (Pld) mal tollerano l’ “inerzia” del Giappone di fronte alle minacce alla sicurezza nazionale provenienti dall’esterno.
Un atteggiamento dettato dall’articolo 9 della costituzione adottata nel 1947, secondo cui “Il popolo giapponese, aspirando sinceramente alla pace tra le nazioni fondata sulla giustizia e sull’ordine, rinuncia per sempre alla guerra quale diritto sovrano dello Stato” e, pertanto, su suolo giapponese “non saranno mantenute forze militari terrestri, marine o aeree, o altre forze militari difesa nazionale”.
Dall’immediato dopoguerra in poi, i governi giapponesi hanno adottato più risoluzioni che riconoscevano il diritto di autodifesa collettiva, in base all’articolo 51 della Convenzione delle Nazioni Unite, ma ne dichiaravano l’incostituzionalità ai sensi dell’articolo 9 della costituzione postbellica.
Ciò non ha però impedito aggiramenti e interpretazioni di comodo. Il più evidente e contestato nel 2003: Junichiro Koizumi, considerato da molti il mentore dell’attuale primo ministro, forza le procedure parlamentari per sostenere lo sforzo bellico dell’alleato americano in Iraq e fa approvare l’invio di mille unità delle Forze di auto-difesa.
Dopo il 1945 nessun soldato del Sol Levante era stato impiegato in missioni senza un mandato delle Nazioni Unite. Per di più, nessuno era mai stato impiegato in zone di conflitto, ma solo in missioni a scopo umanitario in zone considerate sicure, a basso rischio di scontri a fuoco.
Koizumi sa di inviare soldati in una zona di guerra, e quindi a rischio di uccisioni, e di conseguenza alza gli indennizzi per i caduti in azioni. I militari giapponesi lasceranno l’Iraq solo sei anni più tardi, fortunatamente senza caduti.
Per evitare ulteriori evidenti forzature, allora, lo stesso Koizumi ha l’idea di riformare la costituzione. Nel 2005 il blocco conservatore del Pld stila la bozza di una riforma costituzionale comprensiva che possa garantire al Giappone maggiore “visibilità” nelle missioni militari internazionali.
Oggetto di revisione gli articoli 9 e 96 che stabiliscono le procedure per cambiare la costituzione. Un cammino, quello di un’eventuale riforma della carta, assai difficoltoso che richiederebbe la maggioranza qualificata dei due terzi del Parlamento e l’indizione di un referendum popolare.
Ed è qui le cose si fanno più complesse: fino al 2007, infatti, non esisteva una legge sulla votazione popolare. È proprio sotto Shinzo Abe, al suo primo incarico di governo, che il provvedimento viene approvato.
Ma non basta. Si possono fare le regole, ma senza giocatori la partita non comincia. Come sottolineava sul suo blog Andrea Ortolani, esperto di diritto giapponese presso l’università Hitotsubashi di Tokyo, “i giapponesi sono molto affezionati alla loro Costituzione” e, in linea generale, non esiste un “consenso diffuso alla modifica”.
Ecco allora spiegato l’escamotage della “reinterpretazione” dell’articolo 9. Cosciente dell’impossibilità di raccogliere un vasto consenso nelle due camere, e soprattutto di ottenere il placet dei cittadini, Abe ha deciso di non correre il rischio di impantanarsi in un momento in cui il suo governo può approfittare di una maggioranza parlamentare forte e di un periodo piuttosto lungo (poco più di due anni) senza elezioni per portare avanti gli altri punti della sua agenda politica: stimoli fiscali e riforme strutturali.
Nelle ultime settimane, infatti, più sondaggi hanno dimostrato che più del 50 per cento dei giapponesi è contrario a una modifica dell’articolo 9. Secondo un sondaggio pubblicato dal quotidiano Tokyo Shimbun, il 60 per cento delle persone interpellate sulla necessità di una riforma dell’articolo 9 hanno risposto in maniera negativa.
Il dato significativo è che la maggioranza delle persone interpellate per lo stesso sondaggio ha sottolineato la necessità di modificare la costituzione (56 per cento), ma senza toccare la norma sul “pacifismo” giapponese. Il trend è peraltro rimasto costante negli ultimi sette anni. Un altro sondaggio del 2007, condotto dalla Nhk, la tv nazionale nipponica, in occasione del sessantesimo anniversario della costituzione giapponese aveva dimostrato che per i cittadini del Sol Levante l’articolo 9 era il punto “fondamentale” della carta come “costituzione di pace”.
E se i sondaggi non bastassero a dare indicazioni sull’orientamento dell’opinione pubblica, i gesti eclatanti e le manifestazioni dei giorni scorsi sono state il chiaro segnale che sull’articolo 9 Abe potrebbe essersi giocato una discreta fetta del suo elettorato.
Circa 10 mila persone, secondo quanto riferito dall’agenzia di stampa Kyodo, si sono radunate fuori dall’ufficio del primo ministro il giorno dell’approvazione del governo sulla risoluzione, al grido di “non distruggete l’articolo 9 della costituzione”. Due giorni prima, in pieno centro di Tokyo, un uomo si era dato fuoco forse in segno di protesta contro la decisione del governo.
Più che dagli attacchi della Corea del Nord o della Cina molti cittadini sembrano spaventati dal corso che Abe ha dato alla sua amministrazione in materia di difesa. “La situazione è critica e questo potrebbe essere il punto di svolta che ci porterà a una guerra”, ha detto una manifestante giunta nella capitale da Kyoto.
Il primo luglio è infatti stato l’ultimo tassello di un puzzle che è venuto a definirsi negli ultimi sei mesi. Prima, a fine 2013, la creazione di un Consiglio di sicurezza nazionale, diretta emanazione del primo ministro negli affari della difesa nazionale. Poi a stretto giro, l’aumento di circa 600 miliardi di yen (circa 4 miliardi di euro) delle allocazioni nel comparto difesa per i prossimi cinque anni.
E ancora, ad aprile 2014, la fine del divieto autoimposto a metà degli anni Sessanta sull’esportazione di armi. La protesta è arrivata anche a Hiroshima: “Ciò che salva le persone non è la guerra”, ha spiegato Sunao Tsuboi, direttore della confederazione delle associazioni di sopravvissuti al bombardamento atomico.
[Scritto per il manifesto; foto credit: abc.net.au]