Il gesto del sergente sudcoreano Lim, che sabato scorso ha aperto il fuoco contro i suoi commilitoni, uccidendone cinque, per poi darsi alla fuga prima di tentare il suicidio, apre il dibattito sulle condizioni psicologiche cui sono sottoposti i soldati di leva in Corea del Sud. In varia misura, almeno un soldato sudcoreano ogni cinque ha bisogno di essere tenuto sotto controllo e ricevere attenzione. Il dato emerge dalla conferenza stampa del portavoce del ministero della Difesa, nel giorno dell’arresto del sergente Lim. Sabato il soldato ventiduenne ha ucciso cinque suoi commilitoni, per darsi poi alla fuga lungo il confine con la Corea del Nord.
Il prossimo settembre il sergente avrebbe terminato il servizio di leva, obbligatorio per due anni per tutti i sudcoreani tra i 18 e i 35 anni, in un Paese ancora formalmente in stato di guerra con i nordcoreani. Un obbligo cui molti ragazzi ogni anno cercano di sottrarsi, escogitando metodi per essere riformati e anche a costo di sfidare il carcere per i renittenti.
A marzo del 2013, in un test sulla personalità, Lim era stato classificato come soggetto A. Questo vuol dire che, per gli standard militari, il ragazzo aveva bisogno di particolare attenzione ed era considerato inadatto per prestare servizio al fronte. Almeno secondo la classificazione a tre, i cui criteri, spiega il quotidiano Hankyoreh, non sono del tutto chiari. Nove mesi dopo una nuova perizia aveva parzialmente rivisto il giudizio a livello B, ossia ancora nella lista dei soggetti a rischio, ma abile per la prima linea.
Ed è proprio nell’avamposto generale di Goseong, lungo il confine caldo tra le Coree, che sabato attorno alle 20 ora locale, il sergente Lim ha prima lanciato una granata contro l’edificio in cui stavano alcuni suoi commilitoni, contro i quali ha in seguito aperto il fuoco, per poi darsi alla macchia armato di un fucile d’assalto K-2.
La diserzione e l’inseguimento sono durati circa 23 ore. Lunedì l’epilogo. Lim è stato fermato dopo aver tentato il suicidio. In precedenza c’erano stati altri scontri a fuoco, durante i quali almeno due soldati sono rimasti feriti, uno colpito dal sergente, l’altro da fuoco amico. Gli stessi genitori e il fratello maggiore sono stati portati vicino a dove Lim era asserragliato per convincerlo ad arrendersi. “Rischio la condanna a morte, non posso arrendermi”, avrebbe detto il ragazzo alla famiglia prima di colpirsi al petto, secondo quanto riferito dal ministero per la Difesa. Ora si parla di problemi psicologici e di difficoltà ad adattarsi alla vita in caserma e al fronte. Neppure la lettera scritta dal soldato poco prima di tentare il suicidio è riuscita però a chiarire i motivi del gesto.
Il ministero della Difesa nega che nel messaggio Lim, ora ricoverato in condizioni stabili, abbia accusato i commilitoni uccisi, con le cui famiglie si è invece scusato. Gli ambienti militari negano inoltre che il sergente sia stato costretto a prestare servizio di guardia con un rango inferiore.
Il gesto del sergente Lim, riporta l’agenzia Yonhap, potrebbe spingere a rivedere il sistema di gestione della leva. “Vogliamo impedire che chi è al comando cambi arbitrariamente il grado dei coscritti nella lista dei soldati che necessitano di maggiore attenzione, i cambi di grado dovranno essere sottoposti a una verifica”, ha spiegato all’agenzia semiufficiale una fonte dell’esercito.
Già in passato soldati sudcoreani erano stati vittime di fuoco amico, in episodi simili a quello di sabato. L’ultimo caso risale al 2011. Allora un marine uccise altri quattro soldati per reazione contro la cultura miltare, tentando poi di uccidersi a sua volta. Sei anni prima un altro soldato sparò contro alcuni commilitoni uccidendone otto e ferendone altri due. In entrambi i casi gli autori degli assalti furono condannati alla pena capitale, sebbene nel Paese applichi di fatto dalla fine degli anni Ottanta una moratoria di fatto sulle esecuzioni.
[Scritto per il manifesto]