Cosa significa essere uiguro nella grande Cina, membro cioè del gruppo etnico al centro dell’attenzione per i recenti fatti di cronaca? Le storie del fotografo Kurbanjan Samat e dei suoi familiari rendono forse l’idea di come sia difficile, per la minoranza dello Xinjiang, avere le stesse opportunità dei cinesi han. Ne pubblichiamo qui un estratto. Testo originale
La politica non mi interessa. Quando sono andato in Turchia e negli Stati Uniti, i miei amici erano preoccupati degli agitatori che ci sono all’estero. Mio padre mi aveva insegnato a non nuocere alla società, a non entrare in contatto con gente dalle idee estreme. Soprattutto dopo essere arrivato a Pechino e quando le possibilità di andare all’estero erano aumentate, mio padre continuava a dirmi di non fare amicizia con gli stranieri. Perché non capiscono molte cose cinesi, soprattutto riguardo lo Xinjiang. come possono gli stranieri capire quello che neanche i cinesi capiscono? Molti inventano cose inesistenti, ingigantiscono minuzie e ne fanno strategie per tirare a campare. "Non ti mischiare con loro, fatti i fatti tuoi."
Posso capire che non sia facile ottenere un passaporto. Se uno vuole uscire, studiare, fare affari e quindi tornare, non c’è problema. Ma alcuni appena escono dicono sciocchezze tali che viene voglia di insultarli.
A Shenyang mi è successa una cosa. Era l’anniversario dei 60 anni della Repubblica e non mi permettevano di trovare una sistemazione. Erano arrivati dei poliziotti dall’ufficio locale di polizia e gli avevo detto che ero membro dell’albergo, che avevo già prenotato una stanza e che non capivo la ragione per cui non potevo stare lì. Dopo una discussione durata più di due ore, alle tre mi avevano permesso di andare a dormire. Il giorno dopo volevo andare su internet, ma il ragazzo dell’internet point quando vide la mia carta di identità mi disse senza neanche alzare la testa: "scusa, il tuo gruppo etnico non può navigare online".
Così scrissi un ‘articolo: "gli xinjianesi sono benvenuti in tutto il paese". Non mi aspettavo di ricevere, solo due settimane dopo, l’avviso che l’articolo era diventato molto popolare e che dovevo fare attenzione. Capii che qualcuno l’aveva messo online. Tornai a casa e controllai la mail. Era quasi piena: più di 300 messaggi, alcuni di media di paesi che non avevo mai sentito nominare che volevano intervistarmi. Restai di stucco e ebbi anche paura. Stava mica per succedere qualcosa? Telefonai al mio padre adottivo e gli dissi che avrei voluto mandarli a quel paese. "Cosa?", mi rispose. "Li sottovaluti. Non fai a tempo a dirgli una parola che è già diventata un romanzo".
Mi scombussolava anche il fatto che mi proponessero di essere intervistato a Hong Kong, in Francia o in Germania. Non gli importava che non avessi il passaporto, ci avrebbero pensato loro. Potevano anche farmi diventare cittadino tedesco, le sapevano tutte. Eliminai alcuni messaggi senza neanche leggerli o dandogli solo un’occhiata. Poi per due giorni non andai online. Dopo sei mesi, un mio amico tornò dagli Stati Uniti e mi disse che lì aveva visto il mio articolo e che il titolo era stato cambiato in "scusa, il tuo gruppo etnico non può andare online".
Per girare il documentario "Via della seta, un viaggio che ricomincia" [prodotto dalla Cctv nel 2013] bisognava fare il passaporto. Preoccupato che non sarei riuscito a fare tutte le pratiche, dissi che non ci sarei andato. Ma il regista mi ricordò che ero il cameraman e che senza di me non avrebbero potuto girare. Così lo facemmo.
Per prima cosa la società di produzione del documentario presentò una lettera di referenze al Dipartimento di propaganda del Comitato di Partito dello Xinjiang. Questo rispose che bisognava scrivere all’Ufficio di pubblica sicurezza di Hotan e farsi fare un documento. Solo così avrei avuto i requisiti per poi compilare il modulo di richiesta. Tale modulo doveva poi avere il timbro dell’ufficio di polizia locale e doveva essere firmato e timbrato da tre persone.
Il problema era che non riuscivo a trovare nessuno. Quando alla fine trovai il direttore dell’ufficio, mi disse che non andava bene. Avrei dovuto scrivere una lettera di referenze. Tornai il giorno dopo: non c’era nessuno e me ne andai. Aspettai ancora un giorno. Ci tornai l’indomani e il giorno dopo ancora. Dopo una settimana, e molto di controvoglia, il direttore dell’ufficio mi firmò il documento.
La firma non bastava. Il mio hukou [permesso di residenza he viene dato alla nascita] era di Hotan quindi dovevo completare [il documento] con la firma di un vice segretario. Fu molto complicato, mi disse: "non va bene perché sei uiguro". Che motivo è? Ero così demoralizzato! Per la firma ci vollero due giorni interi. Una volta ottenuta, la diedi all’Ufficio di pubblica sicurezza. Dopo due settimane arrivò il passaporto. Per ritirarlo mi dissero che dovevo depositare una caparra di 50mila yuan alla Commissione per gli affari etnici e religiosi. Non ero disposto a sborsare quella somma. Gli spiegai che si trattava di una trasferta di lavoro e dissi loro che la richiedessero alla produzione. Telefonarono ai nostri capi. La produzione non sapeva cosa fare e si accordò con loro per non pagare quella somma. Venne fuori una quinta certificazione. Mi recai quindi al governo della municipalità di Hotan per avere la firma del vice sindaco e della Commissione per gli affari etnici e religiosi. Solo così l’Ufficio di pubblica sicurezza di Hotan mi diede il passaporto. Quando ritirai il passaporto mi chiesero di scrivere quando sarei tornato. Dissi che non potevo saperlo. Uscendo spesso dal paese, non sapevo quando sarei dovuto uscire di nuovo. Nel corso di queste pratiche, qualcuno era anche andato a casa mia per mettere pressione a mia madre. L’avevo consolata, "non temere, lo Xinjiang di oggi non è più quello di una volta".
Anche al mio terzo fratello capitò una cosa simile. Dopo quattro anni a Shenzhen, voleva andare a Hong Kong ma non era riuscito a ottenere il lasciapassare. Per una cosa così semplice, dovette correre all’ufficio di polizia una decina di volte. Ogni volta si sentiva ripetere "oggi non c’è tempo, torni domani".
*Kurbanjan Samat è un fotografo di etnia uigura, originario dello Xinjiang. Ha iniziato a lavorare al suo progetto fotografico "Io sono dello Xinjiang", alla fine dello scorso anno, nell’intento di documentare la vita quotidiana della gente della regione autonoma che vive nel resto della Cina. Samat si propone di catturare le speranze, i sogni e le ambizioni degli uiguri, per dimostrare che pur essendo spesso calunniati e discriminati non sono diversi da qualsiasi altra minoranza del Paese.
Il suo blog