Il settore dell’high-tech supera la siderurgia in termini di fatturato. La Cina sembra ben avviata verso quella trasformazione che dovrebbe renderla "economia avanzata". I campioni del nuovo corso sono grandi gruppi che fanno da ponte tra il manifatturiero e la tecnologia, ma c’è anche Alibaba, un caso a parte. Quando Mao se me andò con il sindaco di Pechino Peng Zhen sulla collina del carbone che sta dietro alla Città Proibita, espresse il suo desiderio di vedere tutto quel vecchiume raso al suolo e di assistere invece al sorgere di “una foresta di ciminiere”. Si era nel 1949, all’indomani della presa di potere da parte dei comunisti; poi, ci provò diverse volte, il Timoniere. Per esempio quando impose l’industrializzazione forzata del Grande balzo in avanti, a fine anni Cinquanta, con il risultato di far morire di fame milioni di cinesi.
La trasformazione della Cina in “fabbrica del mondo” riuscì invece al suo erede più o meno designato (qui la storiografia si divide), Deng Xiaoping, artefice di quel violento processo a colpi di sequestri di terre, costruzione di fabbriche, investimenti ed esportazioni, che arriva fino ai giorni nostri.
Oggi, il genio visionario di alcuni ragazzi prodigio dell’imprenditoria cinese sta definitivamente mettendo in soffitta quel modo di pensare, produrre, vivere. A loro, strizza ripetutamente l’occhio anche il governo di Pechino, alle prese con l’immane progetto di trasformare completamente il volto del Dragone.
È successo infatti che la seconda più grande economia del mondo, ha raggiunto un punto di svolta nel suo tentativo di diventare un gigante della tecnologia globale, rivaleggiando con Stati Uniti, Giappone o Corea del Sud. Nel 2013, per la prima volta, l’elettronica ha superato l’acciaio come maggiore industria per fatturato, grazie al boom di aziende come Huawei, Xiaomi, Lenovo, China Mobile e Alibaba. Il cammino è lungo, ma si tratta di un primo segno che la trasformazione dell’economia è in corso.
I numeri: il settore dell’elettronica ha fatturato nel 2013 7.700 miliardi di yuan (890 miliardi di euro), contro i 7.600 miliardi dell’industria siderurgica, secondo dati dell’Istituto Nazionale di Statistica cinese. Un anno prima, il sorpasso era stato solo sfiorato: 6.900 miliardi di yuan per l’high-tech e 7.000 per l’acciaio.
Nel computo entra anche l’hardware, prodotto industriale per eccellenza. E infatti, si potrebbe obiettare che l’elettronica made in China è di fatto un prolungamento del vecchio modello industriale, metallo e chips assemblati a buon mercato, mentre l’intelligenza incorporata, il software piuttosto che il prodotto innovativo, resta affare di altri.
È un dubbio avvalorato da altre statistiche: tra i più potenti gruppi dell’elettronica cinese c’è Lenovo, che già nel 2012 ha superato Hewlett-Packard come massimo produttore mondiale di personal computer, mentre Huawei è seconda nel settore delle attrezzature per telecomunicazioni. China Mobile è ormai il più grande operatore wireless a livello globale, con 781 milioni di abbonati, mentre gli smartphone di Xiaomi sfidano Samsung e Apple.
Oggetti, merce, “roba” tangibile, con sullo sfondo l’onnipresente telefonino divenuto ormai terminale multiuso che, soprattutto in Cina, rosicchia sempre più spazio al personal computer.
Eppure Alibaba, che è un prodotto innovativo e non un pezzo di metallo, presenterà a breve la sua Ipo a New York, che gli analisti stimano già tra i 136 e i 245 miliardi di dollari. Il che renderebbe la compagnia del ragazzo prodigio Jack Ma – di cui i media segnalano anche la grande predisposizione alla beneficenza – seconda solo a Google nel gotha dell’alta tecnologia: ben al di sopra di Facebook e anche di Amazon, il modello di riferimento per l’ecommerce, da cui anche Alibaba ha abbondantemente attinto.
È questa la zizhu chuangxin, l’innovazione “autonoma” cinese, che consiste nel prendere tecnologie che si sono affermate altrove, rielaborarle alla luce delle condizioni particolari del mercato locale e poi magari riesportarle con maggiore successo dell’originale.
Questo processo si sta ora potenziando perché viaggia sull’espansione di una classe di giovani consumatori che sempre più opera nel settore dei servizi e possiede dispositivi digitali in continua evoluzione. La loro crescita esponenziale va di pari passo con il processo di urbanizzazione.
Bloomberg racconta in questo senso la parabola di Foshan, città da sette milioni di abitanti incollata a Guangzhou e non troppo distante da Hong Kong, sul famoso delta del Fiume delle Perle, la cintura manifatturiera simbolo dell’industrializzazione “alla Deng”. Negli anni Ottanta, l’esproprio di terreni agricoli l’aveva trasformata in centro industriale votato all’export, con abbondanza di lavoratori a basso costo (i contadini espropriati, appunto) che andarono ad alimentare le 36 cittadelle interne, ognuna con una specializzazione produttiva: mobili, ceramiche, acciaio, plastica e così via. La crescita dei salari operai avvenuta negli ultimi anni l’ha cambiata di nuovo e ora il reddito procapite è superiore a quelli di Pechino e Shanghai. Così, le manifatture votate all’export rappresentano oggi solo il 18 per cento del prodotto interno lordo di Foshan. Vanno altrove.
Proprio un industria locale, la Foshan Haitian Flavouring & Food, è presa dalla stessa Bloomberg come esempio di successo legato alla nuova propensione locale ai consumi (esempio che si ritiene estendibile ad altre ex città manifatturiere). Produce salsa di soia, il suo mercato è soprattutto quello domestico. In questo 2014, è per ora seconda nelle Ipo sui mercati cinesi, dietro alla Shaanxi Coal Industry – cioè carbone – un’industria vecchio modello. Ma mentre i ricavi della Shaanxi sono diminuiti del 2,3 per cento nell’ultimo anno, quelli della Foshan sono schizzati in alto di un buon 19 per cento, fino a 8,3 miliardi di yuan (oltre 960 milioni di euro).
Il passaggio è in corso, insomma, e Alibaba è forse l’esempio più fulgido di quanto si sta verificando. La Cina ha già 618 milioni di utenti Internet, secondo il China Internet Network Information Center, e il governo ci mette di suo le infrastrutture, con il progetto di raggiungere con la rete wireless broadband ogni angolo della Cina. Di nuovo soldi per Huawei, ma anche e soprattutto per il gigante dell’ecommerce, che per la sua specifica natura fa leva sulle due tendenze apparentemente inarrestabili: l’aumento dei consumi interni e la crescita dell’informatizzazione.
Tutto meraviglioso? Non ancora. Resta il lascito del vecchio modello di produzione, gli interessi costituiti dentro le grandi industrie pesanti – come quella siderurgica – con il loro eccesso di capacità che non trova più sbocchi di mercato e genera debito. Per non parlare del loro devastante impatto ambientale. Sono il freno a mano tirato nel processo di trasformazione della Cina. Che comunque è in corso.
[Scritto per Linkiesta]