Con una sentenza della Corte suprema ieri sono stati riconosciuti pari diritti alla comunità transgender indiana. Gli hijra, discriminati e ai margini di una società largamente bigotta, diventeranno una delle Other Backward Class e godranno di politiche ad hoc in ambito lavorativo e scolastico.
Ieri mattina la Corte suprema indiana, in un verdetto dalla portata storica, ha riconosciuto alla comunità transgender lo status di «terzo genere sessuale» davanti alla legge. Si tratta di una presa di posizione importante, destinata a cambiare – almeno formalmente – le condizioni di vita di centinaia di migliaia di trans nel paese, costretti fino ad ora a condurre esistenze ai margini della società, vittime di violenze e discriminazione in ogni aspetto della vita quotidiana.
La sezione della massima Corte indiana ha stabilito che i trans devono poter godere dei medesimi diritti garantiti dalla Costituzione al resto della popolazione e saranno considerati come una delle «Other Backward Class (Obc)», gruppi sociali che godono di misure governative ad hoc in ambito lavorativo e scolastico.
«Riconoscere ai transgender lo status di terzo genere sessuale non è una questione medica o sociale, ma ha a che fare coi diritti umani» ha dichiarato il giudice KS Radhakrishnan al momento del verdetto, specificando che «anche i transgender sono cittadini indiani ed è necessario garantire loro le medesime opportunità di crescita».
Le conseguenze della sentenza, che invita il governo centrale e quelli locali ad adeguarsi alla novità, si ripercuoteranno su una serie di aspetti della vita di tutti i giorni. Secondo la stampa locale, l’opzione «transgender» sarò inserita nei moduli da compilare per i documenti d’identità, saranno creati bagni pubblici ad hoc e la condizione di hijra – come vengono comunemente indicati i trans in India – verrà tutelata nelle strutture ospedaliere nazionali con reparti appositi, escludendo l’obbligo di scegliere tra uno dei due sessi per poter banalmente accedere alle cure mediche.
Inoltre, in virtù dell’appartenenza alle Obc, il governo dovrà stanziare un determinato numero di posti riservati nei luoghi d’impiego statali, nelle scuole primarie e nelle università, secondo il sistema delle «reservations» già in vigore per le altre classi svantaggiate.
La petizione per il riconoscimento dei diritti dei transgender era stata avanzata nel 2012 dalla National Legal Services Authority (Nalsa) assieme ad altri petizionisti indipendenti tra cui Laxmi Narayan Tripathi, figura di spicco del movimento Lgbt indiano ed attivista per i diritti dei trans attiva in diverse organizzazioni non governative internazionali.
Laxmi, presente fuori dal tribunale poco dopo la sentenza, ha dichiarato alla stampa locale: «Oggi, per la prima volta, mi sento davvero orgogliosa di essere indiana. […] Oggi io e le mie sorelle possiamo sentirci pienamente indiane, grazie ai diritti che la Corte suprema ha ordinato debbano esserci garantiti».
Se il verdetto segna un primo passo verso il pieno riconoscimento dei diritti degli hijra nel paese, l’effettiva applicazione della sentenza e, soprattutto, il cambiamento delle condizioni di vita dei trans in India richiederà tempi dilatati, scontrandosi contro le resistenze di un paese progressista e pluralista sulla carta ma spesso estremamente bigotto.
Gli hijra, tenuti ai margini della società, oggi sopravvivono in larga parte di espedienti: elemosina sui mezzi pubblici – chi ha viaggiato in India sicuramente si sarà imbattuto in hijra agghindati con sari e gioielli, a battere le mani per «pretendere» le offerte dei passeggeri – danze nelle feste popolari, ai matrimoni e al corrispettivo locale dei nostri battesimi, molto spesso prostituzione.
Esistenze antitetiche ai fasti del passato imperiale, quando gli hijra di corte erano osannati per le proprie doti artistiche, specie nelle danze tradizionali e nel canto.
Sul destino dei trans indiani – assieme al resto della comunità gay e lesbo – pende ancora la minaccia dell’infame Sezione 377 del codice penale indiano, la legge di epoca coloniale che per i rapporti sessuali «innaturali» prevede una pena detentiva fino a 10 anni.
La legge, abrogata nel 2009 da una sentenza dell’Alta Corte di Delhi, è stata reintrodotta dalla Corte suprema alla fine del 2013, ribaltando il verdetto precedente in attesa che la norma venga modificata tramite il tradizionale iter legislativo parlamentare.
Una doccia fredda per il movimento Lgbt che, come aveva dichiarato all’epoca a China Files la documentarista ed esperta di movimenti Lgbt in India Adele Tulli, aveva riportato a galla le titubanze degli attivisti nazionali: «Mai nessun partito – ha dichiarato Tulli – ha preso una posizione netta sull’argomento, la politica si è disinteressata e solo una parte di opinione pubblica ha portato avanti la lotta per i diritti Lgbt».
All’inizio di aprile la stessa Corte suprema ha però accettato di considerare una «sentenza riparatrice» nel caso e oggi, con l’ennesimo passo a difesa dei diritti umani nel paese, si può – timidamente – tornare ad essere ottimisti.
[Scritto per il manifesto; foto credit: unc.edu]