L’economia indiana arranca e il tema della crescita è la pietra angolare sulla quale è stata costruita la campagna elettorale del 2014. I problemi sono molteplici e sistemici, dalla mancanza di infrastrutture a quella di posti di lavoro. Ecco un’analisi di cosa non va nella locomotiva indiana e cosa si potrebbe fare.
La locomotiva indiana ha vissuto per anni, agli occhi dell’opinione pubblica internazionale, della fama guadagnata a ragione nei roboanti anni del boom economico, l’inizio del secolo infelicemente bollato come l’Era dell’Impero di Cindia.
Non sono passati nemmeno quindici anni e la Shining India promossa dal governo nazionalista del Bharatiya Janata Party (Bjp) agli inizi degli anni Duemila sta iniziando a mostrare tutte le debolezze di una superpotenza economica in costruzione, incompiuta, gravata da problemi strutturali per troppo tempo accantonati e che ora presentano il conto alle casse dello stato.
I numeri parlano chiaro: in tutto il 2013 l’economia indiana è cresciuta, di media, al di sotto dei cinque punti percentuali, disattendendo le stime del governo che, pur riconoscendo l’affanno diffuso dalla crisi economica globale, confidavano inizialmente in ritmi di crescita vicini al 7 per cento.
Così non è stato e ora, a poche settimane dalla fine delle elezioni federali, il tema della crescita economica è il perno sul quale si sta sviluppando la campagna elettorale nazionale, misura dell’importanza attribuita all’esito delle urne previsto per il prossimo 16 maggio.
Chi tra Narendra Modi (candidato del Bjp, dato per favorito dai sondaggi, sostenitore di un modello di crescita mutuato dal “suo” Gujarat, stato dell’India campione nell’attrarre investimenti stranieri) e un esponente ancora da definire per l’Indian National Congress (Inc, fautore di una politica economica dove è lo Stato – con soldi che al momento non ci sono – a doversi sobbarcare l’onere di sollevare dalla povertà le classi più indigenti, oltre il 70 per cento su 1,27 miliardi di indiani) sarà in grado di formare il nuovo governo federale, si troverà alle prese con l’amministrazione di una nazione-continente dall’enorme potenziale di crescita ma, al contempo, dalle enormi questioni interne irrisolte.
Nell’ultimo rapporto dell’Organisation for Economic Co-operation and Development (Oecd) il paragone tra l’India e il resto delle economie emergenti asiatiche è impietoso: nel 2012, ad esempio, la crescita indiana si è fermata al 3,7 per cento, mentre la Cina viaggiava al 7,7 e la media dei paesi Asean si attestava al 5,5. Un segnale d’allarme al quale il governo di Delhi ha tentato di rispondere fissando nell’ultimo piano quinquennale 2012-2017 una serie di obiettivi molto ambiziosi, all’epoca teorizzati per raggiungere l’obiettivo della crescita per il quinquennio al 9 per cento che oggi, realisticamente, appare un miraggio.
Gli interventi dovrebbero andare a ripianare il tremendo deficit infrastrutturale che l’India soffre nei confronti del ben più dinamico vicino cinese. La Commissione del piano (l’organo istituzionale che ha il compito di tracciare le linee guida per le politiche economiche indiane) ha previsto un investimento di 1000 miliardi di dollari tra il 2012 e il 2017, il 40 per cento dei quali dovrebbe essere finanziato dal settore privato. Una manovra di stimolo che dovrebbe rilanciare la crescita nazionale, in particolare per il settore siderurgico, che negli ultimi anni ha registrato una battuta d’arresto preoccupante.
Il quotidiano New India Express, alla fine del 2013, ha riportato che lo scorso anno la produzione d’acciaio in India è cresciuta solo del 2,8 per cento, contro il 3,2 per cento della media internazionale. Nonostante l’India sia ricca di materie prime, l’allocazione di licenze per l’estrazione e lo sfruttamento delle miniere di ferro procede a rilento a causa dei vincoli ambientali non rispettati dai grandi gruppi nazionali, con la chiusura di giacimenti illegali in Odisha e in Karnataka e la necessità di reperire i materiali sul mercato internazionale.
Tra il 2012 e il 2013, la produzione nazionale di ferro è crollata del 16 per cento, ferma a 140 milioni di tonnellate, 18 delle quali destinate alle esportazioni. Nono abbastanza per soddisfare le aspirazioni della superpotenza, costretta ad acquistare materie prime da fuori, allargando un deficit della bilancia commerciale che nel 2013 ha toccato la cifra record di 88 miliardi di dollari.
È una reazione a catena: produrre acciaio costa di più, il prezzo si alza e rimangono solo due strade da percorrere: o se ne vende tanto a prezzo ribassato, contando su un margine minimo ma moltiplicato dalla domanda, oppure – ed è il caso dell’India – in un periodo di crisi sia economica che valutaria (la rupia ha toccato i minimi storici contro il dollaro lo scorso anno, sforando la soglia delle 60 rupie per banconota verde) la misera domanda interna costringere a “svendere” per sopravvivere. Sopravvivere, non crescere.
Mentre PwC e Moody’s prevedono un 2014 di sacrifici per il settore dell’acciaio indiano, il governo insiste nell’alzare l’asticella, fissando un potenziamento della produzione d’acciaio nazionale che entro il 2025 dovrebbe portare a 300 milioni di tonnellate (mt) all’anno, contro le 90 attuali. Un’operazione che necessiterebbe di investimenti pari a un milione di dollari per mt, fondi che non è ancora chiaro come e se l’India sarò in grado di attrarre.
L’altro nodo cruciale, probabilmente Il Nodo per il subcontinente indiano, è far coincidere all’inarrestabile crescita demografica un aumento parallelo dei posti di lavoro: impiegare manodopera, potenziare il settore manifatturiero e aumentare la domanda interna.
Anche qui i numeri non giocano a favore di Delhi. Al momento più della metà della popolazione indiana ha meno di 25 anni, un bacino di forza lavoro immenso che si scontra con l’incapacità del governo indiano di convertire la crescita del Pil in nuove opportunità d’impiego.
Gregory Randolph, ricercatore per l’istituto internazionale JustJobs, intervistato da China Files ha chiarito come l’India si trovi di fronte ad un problema sistemico, vecchio di almeno una quindicina d’anni.
“Nel periodo 2000-2005, quando la crescita indiana si attestava tra l’8 e il 9 per cento, sono stati creati 60 milioni di posti di lavoro, in particolare nel settore dei servizi. Nel quinquennio successivo, quando l’India ha cominciato a rallentare, la cifra dei nuovi posti di lavoro è scesa drasticamente a due milioni. Troppo poco per sostenere una crescita sul lungo termine. Si chiama ‘jobless growth’ ed è un problema comune a molte economie mondiali, dagli Stati Uniti alla Spagna passando per l’Italia, un modello che, alla prova dei fatti, risulta insostenibile”.
Come trovare uno sbocco lavorativo a questa enorme massa di giovani è la spada di Damocle che pende sul futuro dell’India. La disoccupazione è in crescita – 3,8 per cento previsto per il 2014 – ma il problema principale risiede nell’impiego della forza lavoro nella cosiddetta “economia informale”, non regolamentata da salari e tutele sui diritti, basata sullo sfruttamento di lavoratori non specializzati pagati in nero tanto quanto basta per continuare a condurre un’esistenza al limite della soglia di povertà.
L’economia informale, in India, impiega il 94 per cento della forza lavoro, lasciando al palo i meccanismi dell’economia formale – più remunerativa e dai margini di profitto più contenuti – e l’allargamento della classe media, quella che dovrebbe stimolare la domanda interna, ferma al 22 per cento della popolazione totale.
“Il governo indiano – spiega Randolph – ha previsto l’impiego di 100 milioni di lavoratori specializzati da indirizzare nel settore della manodopera entro il 2025 e, sempre per la stessa data, ha previsto un piano di formazione nazionale che dovrebbe garantire l’entrata nel mercato del lavoro di 500 milioni di ‘skilled workers’. È un piano ambizioso che presenta diversi interrogativi. Uno su tutti: non è ancora stata data una definizione precisa di ‘skilled worker’”.
In definitiva, secondo Randolph, le aree sulle quali il prossimo governo indiano sarà costretto ad intervenire sono tre: potenziare le infrastrutture, formare una classe di lavoratori specializzati e, soprattutto, rilanciare il settore manifatturiero, il grande assente nei sogni di superpotenza economica che, dalle riforme varate ufficialmente nel 1991, hanno galvanizzato una generazione di indiani.
“Prendiamo il principale competitor indiano, la Cina: nel 1991 il manifatturiero cinese cresceva del 2 per cento, mentre vent’anni dopo, nel 2011, la cifra era salita al 14 per cento; l’India, partendo da una crescita dell’1 per cento, in vent’anni ha migliorato il tasso nel settore di un solo punto percentuale”.
Per rimanere aggrappati al sogno di tornare ad essere grandi tra i grandi, l’India ha un disperato bisogno di invertire la tendenza e rimettersi nella scia della crescita che sta trainando il resto dell’Asia orientale. Un ennesimo mancato intervento non significherebbe solamente dire addio al duumvirato di Cindia, ma rischierebbe di infiammare ulteriormente gli scontri interni alimentati da uno scontento diffusissimo, specie tra le generazioni più giovani cresciute nel mito dell’Indian Dream.
[Scritto per Linkiesta; foto credit: businessindiser.com]