Ultime dall’altopiano. Mentre dichiara l’intento di preservare la lingua locale, Pechino trivella il plateau. Dietro, un conflitto che spazia tra la dimensione culturale e quella materiale, mentre le esigenza dello "sviluppo a tutti i costi" rischiano di uccidere la complessità umana ed ecologica. Il governo della regione autonoma del Tibet sta elaborando nuove regole per preservare e promuovere la lingua tibetana, nel timore che stia morendo.
Il Comitato di Lavoro sulla Lingua Tibetana – organismo regionale creato nel 1988 – e le altre autorità sarebbero intenzionati vararle a settembre, secondo quanto riporta Xinhua. La nuova politica dovrebbe “fornire una protezione legale ai diritti e alle libertà delle persone di etnia tibetana per studiare, usare e sviluppare la propria lingua”, dice l’Agenzia Nuova Cina, citando il vice direttore del comitato, Chodrak, il quale sottolinea come “la decisione mostri chiaramente l’ attenzione rivolta al problema da parte del governo centrale e locale”.
In pratica, la legge dovrebbe sancire con precisione i diritti linguistici dei tibetani, mentre finora le norme si prestavano all’interpretazione – cioè anche all’arbitrio – dei singoli funzionari. Tuttavia il problema, come al solito in Cina, consisterà poi nell’effettiva applicazione della legge.
Immediata la replica da Dharamsala, India, dove il governo tibetano in esilio dichiara sul suo sito web che la lingua del “tetto del mondo” – composto da vari dialetti – è stata di fatto già ampiamente repressa dal governo cinese, che impone l’uso del Putonghua (il mandarino). “Il sistema di istruzione del Tibet, controllato interamente dai cinesi e dalla loro ideologia comunista, è orientato a soddisfare le esigenze degli immigrati cinesi”, dicono i seguaci del Dalai Lama che perorano la causa di un Tibet fortemente autonomo e lasciano intendere una sistematica cancellazione del patrimonio culturale della loro gente.
Intervistato dal South China Morning Post di Hong Kong, il politologo Barry Sautman controbatte che tali obiezioni “vengono da persone che non amano l’idea di essere parte della Cina, di conseguenza non vogliono che la gente impari la lingua del Paese di cui non si vuole essere parte”.
“Non c’è stato alcun tentativo di fare estinguere la lingua tibetana – aggiunge il professore dell’università di Hong Kong – e non c’è alcuna indicazione del fatto che le leggi siano fatte per dare soddisfazione solo ai migranti non-tibetani”.
La cerchia del Dalai Lama parla invece da anni di “genocidio culturale” facendo soprattutto riferimento al periodo in cui era segretario del Partito in Tibet Chen Kuiyuan (1992-2000). Fu allora, dicono, che il tibetano inteso sia come lingua sia come cultura perse una sua dignità autonoma e venne subordinato al cinese. La chiave di volta fu la sostituzione dei testi originali tibetani presenti nel corso di studi dell’università di Lhasa con testi cinesi tradotti in tibetano.
Quello della lingua è uno dei più grandi problemi delle minoranze etniche cinesi e, al di là delle leggi, rimanda a un dilemma estremamente materiale che riguarda soprattutto i giovani: abbandonare la propria cultura per essere più competitivi in un mondo degli affari che di fatto parla cinese o preservare le proprie tradizioni rischiando di restare tagliati fuori?
Le regole di Pechino prevedono l’educazione bilingue nelle scuole tibetane e di altre regioni con minoranze etniche, come lo Xinjiang, ma se un giovane vuole fare carriera non solo nelle “enclave” professionali tutelate dalle politiche a favore del bilinguismo, deve inevitabilmente prediligere la lingua cinese. Il che, nel corso del tempo, trasforma il tibetano, l’uiguro, il mongolo e così via in semplici dialetti.
Un conflitto culturale/materiale per certi versi simile è rappresentato dalla notizia di qualche giorno fa secondo cui le grandi imprese energetiche cinesi avrebbero scavato un “buco” di sette chilometri di profondità sul plateau tibetano, nel tentativo di sfruttare le risorse petrolifere e di gas naturale della regione. È il pozzo più profondo mai trivellato a tali altitudini estreme, secondo gli scienziati che stanno seguendo il progetto. È anche un punto di non ritorno, perché la Cina aveva finora mantenuto un profilo molto basso nella sua esplorazione delle risorse in Tibet, a causa sia delle difficoltà a operare in alta quota, sia della sensibilità politica della regione. Ora, evidentemente, non più.
Lo scorso agosto, il Ministero della Terra e delle Risorse cinese ha firmato un accordo da 20 milioni di yuan (oltre 2,3 milioni di euro) con Sinopec, il gigante petrolifero, per esplorare “l’enorme potenziale di petrolio e gas naturale” della regione autonoma, secondo quanto riporta il sito del ministero.
Il punto è che, in termini puramente economici, la scoperta di enormi giacimenti di petrolio e gas naturale da quelle parti sarebbe una manna dal cielo sia per l’economia del Dragone sia per quella del Tibet stesso, che ha uno dei più bassi Pil del Paese.
Le imprese cinesi stanno già lavorando da anni per verificare le stime secondo cui l’altopiano che comprende Tibet, Qinghai e parti di Gansu, Sichuan e Yunnan rappresenterebbe il maggiore giacimento di petrolio e gas al mondo, per oltre 10 miliardi di tonnellate complessive. Altre proiezioni dicono che il suolo conterrebbe anche 36 milioni di tonnellate di rame, piombo e zinco, nonché ferro per miliardi di tonnellate.
D’altra parte, va ricordato, esiste anche una corrente di esperti che giudica economicamente fallimentare trivellare il plateau, per via dei costi che crescono proporzionalmente alle altitudini. Al di là della dubbia resa economica e del problema ecologico – si pensi solo che il plateau è la più grande riserva d’acqua dolce del pianeta – scavi e trivellazioni sul tetto del mondo creano spesso tensioni con la popolazione locale che considera sacri alcuni luoghi geologicamente papabili.
Per questo motivo, le autorità tengono per ora segreti tutti i dettagli sulla grande buco che perfora per sette chilometri il cuore del Tibet.