Il vertice Kim-Moon è stato seguito con emozione dai zainichi, i coreani trapiantati in Giappone. Molti sperano nella pace. Anche il premier Abe sembra soddisfatto. Ma c‘è chi teme la propaganda di Kim. E la polizia tiene sotto controllo l’associazione dei nordcoreani, legata al regime.
Chong Kapsu guarda le immagini dell’incontro tra Kim Jong-un e Moon Jae-in in tv senza celare la propria commozione. Nelle mani dei due leader che si stringono per attraversare da una parte all’altra del confine che corre sul 38esimo parallelo, riconosce un impegno sincero. Lo stesso che lo ha spinto, nel 1985, ad organizzare il One Korea Festival, un evento che ogni anno attira una decina di artisti di rock, jazz e pop coreano a Osaka.
Da quando lo ha lanciato oltre trent’anni fa, Chong, 63 anni, nato in Giappone da una famiglia di origine coreana, aveva in mente l’unità delle due Coree e la pace in tutta l’Asia. Negli anni ha ricevuto critiche per la sua attività, ma è riuscito a trasformare un piccolo evento per i membri della comunità sudcoreana in Giappone in un festival musicale che attira persone di diverse età e nazionalità.
«Per giungere all’unità della nostra madrepatria e per porre fine alle discriminazioni è necessario innanzitutto che gli zainichi (le persone di origine coreana che vivono in Giappone) siano uniti», ha spiegato Chong al quotidiano conservatore Sankei Shimbun. «Continuerò a lavorare fino a che non si potrà varcare liberamente il confine tra il Nord e il Sud», ha aggiunto l’uomo.
Chong è tra quelli che vedono nel recente vertice intercoreano di venerdì l’inizio del percorso verso — come ha dichiarato Kim Jong-un nell’occasione — «Un nuovo futuro». Nella serata di venerdì, a Tokyo, si sono tenute manifestazioni di coreani zainichi con la bandiera dell’unità — con il profilo della penisola coreana in azzurro su campo bianco — esibita anche alle recenti Olimpiadi di Pyeongchang. Parole di apprezzamento per quanto successo a Panmunjom sono arrivate dalle due associazioni di residenti di origine coreana — la Mindan, che riunisce i coreani del sud, e la Chongryon, che invece rappresenta i coreani del nord.
La soddisfazione è comprensibile: le immagini di Kim e Moon che attraversano mano nella mano il muretto che delimita il confine tra le due Coree hanno colpito positivamente l’opinione pubblica di mezzo mondo. Le promesse messe nero su bianco nella dichiarazione conclusiva del vertice fanno poi ben sperare nella fine della guerra di Corea — formalmente ancora in corso dal 1953 — e nella denuclearizzazione della penisola.
Lo stesso primo ministro Shinzo Abe, inizialmente scettico sulla sincerità del regime di Pyongyang, ha mostrato soddisfazione per quanto successo a Panmunjom. In un colloquio telefonico con il presidente sudcoreano Moon, ha ricevuto assicurazioni circa la disponibilità di Kim a incontrarlo in ogni momento.
Durante il suo colloquio con Kim, infatti, Moon avrebbe fatto riferimento alla questione dei rapimenti di cittadini giapponesi in Corea del Nord tra gli anni ’70 e ’80, punto fondamentale nell’agenda politica di Abe. «Vogliamo continuare a collaborare nel contesto dei rapporti Giappone-Corea del Sud e Giappone-Usa e Giappone-Usa-Corea del Sud», ha detto Abe a stretto giro.
Naturalmente, non tutti sono convinti che ci saranno, a breve termine, dei passi avanti concreti. Nella dichiarazione, soprattutto al terzo punto, quello dedicato alla demilitarizzazione del confine e denuclearizzazione della penisola, non vengono specificate le modalità di questa transizione.
E c’è chi, tra i residenti in Giappone di origine sudcoreana, dichiara apertamente ai quotidiani locali di non fidarsi più della Corea del Nord.
Già nel 2000 si era tenuto un vertice di pace simile a quello di venerdì scorso con protagonisti l’allora presidente sudcoreano Kim Dae-jung, l’artefice della Sunshine policy, ovvero la politica di apertura di Seul verso Pyongyang, e Kim Jong-il, padre dell’attuale leader nordcoreano Kim Jong-un.
Il summit si era concluso con la dichiarazione del 15 giugno che impegnava le due parti a lavorare parallelamente per la riunificazione e a cooperare in campo umanitario, economico e culturale. Il vertice aveva reso possibile gli incontri tra alcune famiglie divise dalla fine del conflitto, ma poi la spinta si era esaurita e nel 2004, Pyongyang aveva riavviato i test balistici e nucleari.
Tre anni dopo il vertice, inoltre, fu rivelato che quel vertice era stato “comprato” dal governo sudcoreano che aveva versato alla Corea del Nord centinaia di milioni di dollari.
Tatsuya Kato, ex corrispondente dalla Corea del Sud per il quotidiano conservatore Sankei, avverte in un editoriale dell’opera di ammorbidimento dell’opinione pubblica giapponese avviata dai vertici del regime nordcoreano. Citando fonti anonime governative vicine alla materia, Kato scrive che in previsione di trattative con il Giappone, Pyongyang starebbe allentando i propri programmi di propaganda anti-giapponese e starebbe cercando di invitare nel Paese manager e personaggi di spicco della comunità economica nipponica.
A questo proposito il ruolo della Chongryon sarà fondamentale. Le attività dell’associazione tese a favorire la diffusione di un’immagine positiva della Corea del Nord in Giappone sono al momento, sempre secondo quanto riportato da Kato, sotto il controllo delle autorità di polizia giapponese.
Vero è che messe da parte le tensioni sulla questione dei rapimenti e sui test missilistici, il clima di distensione potrebbe attecchire anche nel Paese arcipelago. Solo se, naturalmente, anche Tokyo, che nel 2013 ha sospeso la gratuità delle scuole legate alla Chongryon e ha risposto tiepidamente a un recente attacco nazionalista contro la sede di Tokyo, sarà pronta a offrire garanzie.
di Marco Zappa
[Pubblicato su Eastwest]