Indonesia – Elezioni locali per lo sviluppo

In Uncategorized by Simone

Settecentosettantacinque milioni di schede elettorali stampate, 190 milioni di elettori, 550mila seggi aperti. I numeri delle elezioni legislative che si svolgono oggi in Indonesia sono degni di un colosso demografico con una popolazione di quasi 250 milioni di persone, il cui calibro è superato solo da Cina, India e Stati Uniti.
I cittadini del più grande arcipelago del mondo, formato da oltre 17mila isole, sono chiamati a scegliere i 692 membri del Majelis permusyawaratan rakyat, l’Assemblea consultiva del popolo, cui si aggiungono 2.112 rappresentanti locali in 33 province e 17mila amministratori a livello distrettuale.

A contendersi gli scranni del parlamento e le altre poltrone sono decine di partiti e formazioni politiche, alcuni attivi a livello nazionale, altri interessati semplicemente a ritagliarsi un proprio spazio di manovra e di gestione del potere a livello locale.

Nel labirintico sistema di alleanze, equilibri e contrappesi sotteso al certame politico, ad emergere sono tre principali sfidanti: il Partai demokrat Indonesia-perjuangan (Pdi-P), guidato da Megawarti Sukarnoputri, figlia del “fondatore della patria” e primo presidente del Paese Sukarno, lei stessa alla guida dello Stato tra il 2001 e il 2004 e oggi all’opposizione; il Golongan karya (Golkar), che è stato in passato lo strumento politico di cui si è servito il dittatore Suharto per imporre il suo Orde baru (Nuovo ordine) al Paese e che al momento fa parte della coalizione che sostiene l’attuale presidente Susilo Bambang Yudhoyono; il Partai gerakan Indonesia raya (Gerindra), fondato nel 2008 e divenuto estremamente popolare grazie al grande carisma di uno dei suoi leader, l’ex comandante generale dell’esercito Prabowo Subianto.

Gli avversari divergono sugli strumenti da utilizzare ma lo scopo a cui mirano, e intorno al quale è stata costruita l’intera campagna elettorale, è comune a tutti e tre: far sì che l’Indonesia possa finalmente occupare “il posto che le spetta” nel contesto di un mondo globalizzato in cui le grandi potenze, dagli Stati Uniti alla Cina, dalla Russia al Giappone, tentano di far valere le proprie ragioni facendo pesare la propria influenza economica e politica sull’intera comunità internazionale.

La “via indonesiana” allo sviluppo

Durante i comizi e gli incontri con gli elettori dei giorni scorsi, i candidati dei tre schieramenti hanno rispolverato la retorica anti-colonialista di Sukarno, ponendo come prioritaria la questione di una crescita economica che consenta al Paese di stare in piedi sulle proprie gambe, senza necessità di aiuti esterni.

Prabowo Subianto è arrivato a presentarsi alla folla indossando il peci, il tradizionale copricapo indonesiano reso celebre da Sukarno, simile a un fez ma realizzato in feltro nero, e una camicia bianca identica a quella indossata usualmente dall’ex leader. “L’Indonesia non può essere venduta!” ha urlato alla folla l’ex militare attraverso microfoni retrò che riproducevano quelli dai quali il fondatore della patria invitò nel 1964 gli Stati Uniti ad “andare all’inferno”.

Membro del G20, abituato per un decennio a un tasso di crescita del Pil del 6 per cento annuo, che lo colloca tra i Paesi in più rapida espansione del pianeta, l’Indonesia è oggi uno Stato che lotta per affermarsi come uno dei protagonisti della scena politica ed economica mondiale, ma in cui l’11 per cento della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà e il 30 per cento trae il proprio sostentamento da un’agricoltura di semplice sussistenza.

La dipendenza dagli investimenti stranieri resta molto forte e nonostante le promesse di “magnifiche sorti e progressive” fatte all’elettorato, rimane da capire se i leader politici riusciranno veramente a trovare una “via indonesiana” allo sviluppo, in un momento in cui la crescita del Pil sta rallentando al 5 per cento e il deficit di bilancio, stando alle previsioni della Banca asiatica per lo sviluppo, si spingerà fino al 2,9 per cento.

Per sostenere la crescita ogni partito propone la sua ricetta. Arif Budimanta, direttore del Megawati Institute, think tank del Pdi-P, ha spiegato ai giornali indonesiani che il Paese deve cominciare a sviluppare infrastrutture e know-how che gli consentano di lavorare le proprie materie prime prima di esportarle, in modo da poter alzare i prezzi, spingere l’economia interna e ridurre il deficit di bilancio.

A questo proposito il Pdi-P si è dichiarato favorevole alla nuova legge sull’esportazione di minerali, che impone alle compagnie estere che operano nel Paese, principalmente statunitensi, di pagare a Jakarta il 25 per cento di tasse, un valore che sarà progressivamente portato al 60 entro il 2016.

Una scelta che non trova d’accordo Burhanuddin Abdullah, ex governatore della banca centrale indonesiana e oggi presidente del “consiglio degli esperti” del Gerindra, che ha sottolineato come questa decisione potrebbe allontanare definitivamente gli investimenti esteri dal Paese, che si verrebbe così a trovare isolato. I “saggi” del Gerindra consigliano piuttosto di concentrare gli sforzi sullo sviluppo del settore agricolo, che a loro parere dovrebbe essere riportato al centro dell’economia indonesiana.

Il Golkar, infine, punta sul graduale incremento dei prezzi del carburante, i cui proventi dovrebbero essere usati, a detta dei suoi esperti, per la realizzazione di quelle infrastrutture di cui il Paese ha urgente bisogno per emanciparsi dal “controllo” che le potenze straniere hanno sulla sua economia.

Le presidenziali del 9 luglio

La fine della dittatura di Suharto, costretto a rassegnare le dimissioni nel 1998 dopo 32 anni alla guida del Paese, ha consentito all’Indonesia di dotarsi di un sistema democratico di gestione del potere. Nel 2004 una serie di riforme ha introdotto un parlamento bicamerale. Oggi il potere legislativo è esercitato dall’Assemblea consultiva del popolo, suddivisa in Dewan perwakilan rakyat (Dpr), il Consiglio rappresentativo del popolo, formato da 560 membri, e Dewan perwakilan daerah (Dpd), il Consiglio rappresentativo regionale, formato da 132 membri, eletti entrambi con un mandato quinquennale. Sempre a partire dal 2004, il popolo sceglie direttamente anche il presidente, che esercita il potere esecutivo coadiuvato dai suoi consiglieri e resta anch’esso in carica per 5 anni.

Le elezioni del parlamento e quelle del presidente sono legate a doppio filo perché solo quei partiti che ottengono il 25 per cento della preferenze popolari, o il 20 per cento dei seggi del Consiglio rappresentativo, possono presentare un proprio candidato alla suprema carica dello Stato. È chiaro quindi che l’esito del confronto sarà determinante per la selezione del futuro presidente, per la scelta del quale i cittadini torneranno alle urne il 9 luglio.

I dati pubblicati nei giorni scorsi dal Centre for strategic and international studies, con sede a Jakarta, mostrano che il 20,1 per cento dei votanti dovrebbe esprimere la propria preferenza per il Pdi-P, mentre il 15,8 per cento dovrebbe riservarla al Golkar e l’11,3 per cento al Gerindra. Se le cose andassero effettivamente in questo modo l’ipotesi più probabile sarebbe quella di un’alleanza tra il partito di Megawarti Sukarnoputri e il vecchio partito di Suharto.

Il candidato alla presidenza del Pdi-P, l’attuale governatore di Jakarta Joko Widodo, detto Jokowi, è dato come super favorito nei sondaggi come successore di Susilo Bambang Yudhoyono, che essendo arrivato alla fine del secondo mandato non potrà più essere rieletto. Jokowi è divenuto molto popolare tra gli elettori per il suo decisionismo pragmatico e per il suo charme mediatico. Il suo principale sfidante è Prabowo Subianto, che non gode però di altrettanto successo presso l’elettorato.

Un elettorato che invoca a gran voce un cambiamento radicale della scena politica dopo che la decentralizzazione del potere voluta nell’era del dopo Suharto ha portato a un aumento della corruzione diffusa nell’apparato statale e amministrativo, facendo crescere il numero dei funzionari governativi e locali pronti a invischiare le mani in affari giudicati utili al proprio tornaconto.

Come sottolineano molti analisti politici, i partiti indonesiani sono sempre più spesso un semplice strumento utilizzato da individui carismatici, appartenenti alle oligarchie economiche o politiche, per arrivare ad affermare il proprio personale potere.

Una lettura che trova conferma nella recente decisione della Commissione elettorale indonesiana, in base alla quale questa sarà l’ultima volta in cui le votazioni per il parlamento e quelle per la presidenza si svolgeranno separatamente, onde evitare qualsiasi mercanteggiamento politico capace di compromettere i meccanismi di check and balance stabiliti a tutela della democrazia.

*Paolo Tosatti è laureato in Scienze politiche all’università “La Sapienza” di Roma, dove ha anche conseguito un master in Diritto internazionale, ha studiato giornalismo alla Fondazione internazionale Lelio Basso. Lavora come giornalista nel quotidiano Terra.

[Foto credit: news.xinhuanet.com]