A quasi dieci anni dalla scomparsa di Terzani, prima che le celebrazioni invadano le cronache culturali (Longanesi pubblicherà i diari contenuti nell’atteso Un’idea di destino) è utile ripercorrere il rapporto che il giornalista e intelletttuale ebbe con la Cina. Relazione intensa e burrascosa, fatta di fratture insanabili – un arresto per crimini controrivoluzionari e un conseguente foglio di via – e di una relazione di amorosi sensi di rara intensità.
Simile a quei gesuiti che tra Diciassettesimo e Diciottesimo secolo varcarono la soglia della corte degli imperatori con l’abito dei mandarini, nel corso dei primi anni Ottanta durante la sua permanenza in Cina come inviato del settimanale tedesco «Der Spiegel», Tiziano Terzani ‘si fa’ cinese. Si veste come un cinese, mangia come un cinese, va in bicicletta come un cinese. Iscrive i figli a una scuola cinese e, ultimo ma non ultimo, assume un nome cinese: Deng Tiannuo.
Anzi non lo assume allora, bensì lo rispolvera. Già nel 1968, infatti, sul declinare della Rivoluzione Culturale, di passaggio in Cina Terzani sceglie il suo alias cinese, fatalmente composto dal nome di famiglia «Deng», proprio come Deng Xiaoping, e altri due caratteri che vogliono dire «promessa del Cielo».
Un simile intento potrebbe suscitare – a posteriori, sia chiaro – qualche dubbio, anche quando lo si rapportasse alla fisicità di Terzani, di statura alta, dai tratti marcati tipicamente europei, i baffi folti di vaga discendenza ‘sovietica’, la chioma crespa pettinata all’indietro, aspetti che sembravano contraddire la ‘divisa’ maoista indossata come fosse un abito proprio, quotidiano. Travestimento? No, molto di più.
Forse il sintomo chiaro di un’utopia, ovvero la sincera convinzione di quell’apertura internazionalista – «Abbiamo amici in tutto il mondo» – di cui Mao doveva essere il sommo garante, promotore di una rivoluzione globale, Grande Timoniere di una Repubblica del popolo, pronta ad accogliere anche coloro che cinesi non erano dalla nascita, ma cinesi – appunto – volevano farsi.
Gli anni Ottanta: Deng contro Deng
Terzani ebbe modo di scontare sulla propria pelle le conseguenze di un equivoco che per molti – già anni prima – segnò la fine di un sogno. Il maoismo rappresentò senza dubbio uno mezzo di radicale rinnovamento politico, culturale, sociale della Cina, ma in chiave squisitamente ‘protezionistica’, senza alcuna apertura significativa all’altra parte del mondo. La via segnata da Mao Zedong è stata certo un eccellente ‘antidoto’ contro l’inisinuarsi più o meno esplicito di forze occidentali, all’opposto di quanto fatalmente era accaduto nel vicino Giappone.
E sono proprio gli anni Ottanta – gli anni della permanenza di Terzani – il tempo e il luogo di un radicale cambiamento della Cina. Innanzitutto, Mao è morto, mentre Deng Xiaoping ha scalato i vertici del Partito Comunista. È mutato l’orizzonte economico, e in modo inatteso – ma questo è forse vero solo per gli osservatori occidentali – il confucianesimo è risorto dalle sue ceneri, i mores della tradizione sono il soggetto attivo di una metamorfosi imprevista.
È forse questo, in sintesi, lo schema di fondo dei reportage scritti per «Der Spiegel», testi che nel 1984 furono raccolti in Fremder unter Chinesen. Reportagen aus China, e l’anno successivo tradotti in italiano e pubblicati per Longanesi con il titolo La porta proibita. Dalla riscoperta della arti marziali al controllo delle nascite, dal saccheggio archeologico fino all’allevamento dei grilli un tempo proibito e clandestino, sono questi gli interstizi macroscopici eppure infinitesimali nei quali affonda l’occhio indagatore dell’inviato. È la Cina di Deng che «lotta per diventare, al massimo, una copia del resto del mondo».
Mao è morto, certo, ma Terzani metterà in luce come l‘equilibrio della Repubblica Popolare si fondi ancora sulla mummia di quest’ultimo, cadavere esposto alla silente adorazione del popolo. È proprio Mao, il suo corpo, il Centro della Cina. Centro fisico, ma anche imponderabile vuoto, buco nero che assorbe ogni forza di sostanziale cambiamento: «Fino a quando quel cadavere resterà al centro del centro della Cina, i cinesi non avranno la libertà di decidere il loro destino, né la fantasia di inventare il loro futuro».
L’invenzione del passato
Futuro che per essere necessiterebbe dell’antitesi del passato. Ma dov’è il passato in Cina? Le opere d’arte sono state letteralmente sterminate durante il diffuso genocidio della Rivoluzione Culturale. Una galassia mutilata per sempre, che pure ora potrebbe rappresentare un’inestimabile fonte di ricchezza, per quella nuova Cina in cui accumulare denaro è ritornato a essere un fatto ‘glorioso’. E infatti accade che il regime ricostruisca un’antichità ad hoc, traformando la nazione in un pantagruelico ‘parco a tema’.
Restauro posticcio di un passato ormai dissolto, finzione che è spaventosa testimoninza indiretta della distruzione globale che aveva segnato gli anni Sessanta cinesi. Senza alcun rigore archeologico, racconta Terzani, «parti di templi diversi vengono arbitrariamente messe assieme», «mozziconi di statue, immagini religiose, iscrizioni vengono tolti dai luoghi originari, rifrescati con una mano di vernice e appicicottati da qualche altra parte».
Per questa ragione i tanti pellegrinaggi ‘laici’, le visite condotte nel presente, debbono rifarsi a un tempo fuori dal tempo, nello spazio del mito. Come il viaggio a Pechino, la cui fondazione fu condotta perseguendo un’idea di armonia difficile da intuire a partire dalla città così come essa appare agli occhi di Terzani. Pechino, la sua essenza, esiste solo nella mente, mirabile esempio di equilibrio, frutto di un progetto di emanazione divina, «città sacra, costruita sul bordo di un deserto».
Capitale dell’Età dell’Oro alla quale è giustapposta la caduta incarnata dalla metropli contemporanea. Dove regnavano ordine, corrispondenza, armonia, ora è il caos l’unico principio regolatore. Esistevano un tempo le tracce di una continuità millenaria che legava il presente all’ignota origine dei tempi. Ora Pechino è una città senza epica. Una vecchia profezia, citata da Terzani, avverte che un giorno quest’ultima sarà di nuovo ingoiata dalle dune. Dalla sabbia del deserto che la circonda essa proviene, e lì ritornerà, alla fine dei tempi. Così, nelle tempeste che sempre più spesso spazzano Pechino con violenza, è fin troppo facile intravedere gli «antichi demoni del deserto» che sono venuti a riprendersi la loro preziosa città.
La tartaruga
Dov’è la tartaruga posta a guardia del pozzo della Porta di Hata dalla quale – si dice – uscirà il drago delle acque pronto a inondare Pechino? Nella notte dei tempi gli abitanti le raccomandarono di non muoversi finché non avesse sentito il gong da tutte e sei le porte della città, ma i pechinesi, proprio alla Porta di Hata, sostituirono il gong con una campana, e così la tartaruga rimase a guardia del pozzo per secoli e secoli. Ora «tartaruga, pozzo e tutto il resto sono stati tolti di mezzo per allargare la strada che passava lì vicino».
Già, la tartaruga. Ce lo ricorda ancora Terzani, mitologo instancabile, come questo animale sia protagonista di innumerevoli storie della tradizione. Fu una tartaruga ad aiutare il Primo Imperatore a domare le acque del Fiume Giallo, e la tartaruga è «il simbolo della longevità, della forza, della perseveranza dei cinesi». Mao è morto, è vero, ma la Cina è ancora espressione di quel disegno ancestrale tratteggiato sul guscio di una tartaruga, ecco perché – lo dice una contadina a Terzani – «il presidente Mao ha mutato il corso dei fiumi, ha spostato le montagne, ma non è riuscito a cambiare la forma della tartaruga».
Fine del viaggio
La fine della permanenza di Terzani in Cina coincide con l’arresto, e quindi l’epulsione del giornalista dalla Repubblica Popolare. Vi tornerà alcuni anni dopo, nel giugno del 1989, prima e dopo la strage di piazza Tiananmen, attraverso una rocambolesca giostra di visti recuperati a Hong Kong. Per il «Corriere» Terzani scriverà un’editoriale datato 5 giugno 1989 rimasto nella storia del giornalismo italiano (segue i fatti di piazza da Shanghai, Pechino gli è preclusa), e proseguirà questa appendice di avventura cinese nei giorni successivi alla strage, quando tenterà la fortuna e con un secondo visto – quasi in incognito – attraverserà una Pechino livida, nel pieno del lutto.
Arresto, si diceva, che avverrà per mano della polizia nella propria abitazione. È in quella occasione che Terzani afferma tra sé «finalmente sono anch’io un cinese». L’assimilazione culturale tentata in prima battuta (parlare la lingua, mangiare il cibo, educare i figli in una scuola cinese, ecc.) non ha avuto esito positivo, se non quello paradossale di fargli ‘guadagnare’ una punizione.
Ed è proprio attraverso questa che Terzani, in conclusione, può dirsi ‘cinese’. Costretto ad autodenunciarsi e a controfirmare una confessione preparata dalla polizia nella quale i capi di imputazione sono dimenticanze veniali, inezie, piccoli ‘delitti’ dal sapore grottesco, il giornalista italiano intuisce il disegno che lo vede, di colpo e senza appello, fuori dalla Cina.
Ecco, è a questo punto che Tiziano Terzani diventa davvero Deng Tiannuo: nella persecuzione e nell’esilio. Tuttavia, l’identificazione significa la morte subitanea di Deng, ovvero la fine dell’alias cinese. Una morte senza possibilità di resurrezione, che comporta la spoliazione delle vesti e la cessazione della parola. Conclusa la ‘rieducazione’, sulla bocca dell’inviato ritorna la lingua inglese, al collo ricompare la cravatta. Nel sole pallido della Pechino di Deng Xiaoping, con un bagaglio di pochissime cose, ritorna a casa la famiglia Terzani.
*Danilo Soscia è nato a Formia nel 1979. Studioso di letteratura di viaggio e di cultura cinese, vive e lavora a Pisa. Ha esordito nella narrativa nel 2008 con Condòmino (Manni). Ha curato il volume In Cina. Il Grand Tour degli italiani verso il Centro del Mondo 1904-1999 (Ets) e In Giappone. Scrittori italiani alla scoperta del Sol Levante (Ets), di prossima uscita.
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