Erwiana Sulistyaningsih è chiusa nel consolato indonesiano di Hong Kong. Deve testimoniare nel processo contro la sua datrice di lavoro che l’avrebbe seviziata per almeno otto mesi. La sua storia è diventato il caso simbolo degli abusi a cui sono costrette le collaboratrici domestiche di Hong Kong. Fuori dal cosolato una manifestazione chiede che sia lasciata libera di girare per l’ex colonia britannica.
Gli attivisti dell’ex colonia britannica denunciano: le collaboratrici domestiche – componente fondamentale e sempre più numerosa della metropoli – non sono sufficientemente protette dalla legge; e quindi, finiscono inevitabilmente per diventare la versione moderna delle schiave. L’hub finanziario d’Oriente, per la sua particolare natura di crocevia tra diverse "Asie", è anche snodo del traffico di umani.
Giocano a carte, bevono (di solito tè o aranciata), ascoltano musica pop che fuoriesce da smartphone eccessivi, qualcuna ti chiede di papa Francesco. Sono tutte donne, stanno accampate su cartoni a Central, oppure nei parchi della metropoli. È domenica, la scena che urta la nostra sensibilità (“sembrano barbone”) rappresenta in realtà il loro giorno di riposo. Si stanno divertendo e “ciacolano”.
Sono le lavoratrici domestiche di Hong Kong, in genere filippine e indonesiane, ma sempre più spesso anche di Myanmar, Bangladesh, Nepal e Sri Lanka.
Nell’ex colonia britannica ce ne sono circa 320mila, per una delle più alte densità al mondo: un “domestic helper” ogni otto famiglie – o uno ogni tre famiglie con figli – per il 10 per cento della popolazione attiva e il 4,4 di quella complessiva, secondo i dati di Asian Migrant Centre.
Nella regione dell’Asia-Pacifico lavora circa il 41 per cento dei collaboratori domestici a livello globale, segno di un continente sempre più “duale”: da una parte chi delega le faccende di casa alla femme de chambre, dall’altra chi ha solo quell’espediente per vivere. Il che sarebbe per altro un lavoro dignitosissimo, per carità, a patto che non sia fatto in condizioni di schiavitù. E Honk Kong è luogo simbolo, in questo senso.
Secondo un rapporto congiunto di Justice Centre Hong Kong e Liberty Asia – un consorzio panasiatico di associazioni che si battono contro la schiavitù nel continente – l’ex colonia britannica è infatti da un lato luogo di approdo e di smistamento di questi lavoratori; dall’altro, non riesce a proteggerli con una legislazione adeguata, rendendoli così nuovi “schiavi” globali.
Il caso più recente, eclatante, è stato quello di Erwiana Sulistyaningsih, una cameriera indonesiana che si trova ora in un letto d’ospedale nel suo Paese. La sua datrice di lavoro hongkonghina, la 44enne Law Wan-tung, l’avrebbe seviziata per almeno otto mesi, rendendola oggi incapace di camminare. La stessa donna avrebbe precedenti con altre due collaboratrici domestiche. L’evento ha scatenato la rabbia delle lavoratrici, che sono scese per strada a protestare.
Il problema – dice il rapporto – è che “l’attuale legislazione si limita a vietare il traffico di esseri umani ‘a scopo di prostituzione’, ma non a scopo di lavoro forzato o di altre tipologie”. Dietro, c’è un sottobosco di agenzie di collocamento, società di prestito e datori di lavoro. I collaboratori domestici – in maggioranza donne, come si è visto – approdano soprattutto a Hong Kong perché, in quanto capitale asiatica della globalizzazione e porta sulla Cina, rappresenta una grande domanda di manodopera; e si trova al centro di un’area geografica dove c’è abbondanza di offerta proveniente dai Paesi vicini.
Il nuovo trend sono le lavoratrici provenienti da Myanmar, l’ex Birmania. Appartengono sia alla popolazione maggioritaria Bamar, sia alle etnie minoritarie. Devono colmare i vuoti lasciati da cameriere di altre nazionalità, che gradualmente si emancipano. Così – aggiunge il rapporto – circa 200 di queste collaboratrici arriveranno in città nel corso dei prossimi tre mesi, ma si teme che finiscano per costituire uno dei gruppi più vulnerabili, a causa delle loro limitate capacità di comunicare in inglese e cantonese.
Abbiamo avuto modo di intervistare due rappresentanti del Kachin Women’s Association Thailand (Kwat), un’organizzazione che cerca di proteggere le donne di etnia Kachin, originaria dell’estremo nord-est birmano, dal traffico di umani. Ci hanno raccontato che, nella maggior parte dei casi, le donne finiscono in Cina, dove l’abbondanza di maschi e la carenza di femmine ha messo su un fiorente mercato di spose occasionali: vengono aiutate a espatriare, poi si sequestra loro il passaporto, le si induce al matrimonio di convenienza e poi, quando hanno espletato al compito di prolungare la linea genealogica del marito, vengono abbandonate.
Non abbiamo potuto verificare di persona le informazioni forniteci dal Kwat, ma se così fosse, si comprenderebbe come un lavoro da colf a Hong Kong, anche in condizioni difficili, possa apparire comunque qualcosa di meglio. È per questo motivo che attivisti e legali fanno fatica a raccogliere denunce e testimonianze delle stesse vittime, a meno che non finiscano in un letto d’ospedale o peggio. Come in ogni storia di sfruttamento, a ogni latitudine.
[Scritto per Lettera43]