Nel 1974, Jiang Qin, l’ultima moglie di Mao, vede "Chung Kuo" di Michelangelo Antonioni e scatena una campagna di critica contro "l’attacco feroce e le calunnie" nei confronti della "prospera Cina socialista" compiuto dall’ignaro regista italiano. Dopo la morte di Mao e la caduta della Banda dei Quattro, il documentario viene "riabilitato" e la Cina porge le sue scuse ad Antonioni. Ma le ragioni profonde di quell’errore, la forma mentis che lo rese possibile, non sono scomparse. "Chung Kuo" è un documentario girato da uno straniero. Esattamente 40 anni fa in Cina, radio, televisione e carta stampata fomentarono la critica dell’opinione pubblica sul film. Per rendere un’idea del tono basti ricordare che si usarono aggettivi come "impetuoso” e “cosmico" a cui erano accostati sostantivi negativi. Oltre all’enormità della portata, il movimento di critica fu particolarmente impressionante per tre motivi: la particolarità del bersaglio, i retroscena del rapido intensificarsi delle critiche e la teatralità della vicenda.
Ospite di Zhou Enlai
Il bersaglio delle critiche fu uno straniero, ovvero il regista italiano di fama mondiale Antonioni. Pare che egli fosse anche membro del Partito comunista italiano. Dietro le critiche c’era "l’alfiere della Rivoluzione culturale e proletaria", Jiang Qing [la moglie di Mao ndt]. Un fatto ancor più misterioso e che bastava a indirizzare l’immaginario politico dei cinesi, era che il regista italiano di sinistra era arrivato su invito speciale di Zhou Enlai. Come poté Jiang Qing organizzare una critica pubblica di così grandi dimensioni forzando le scelte politiche di Zhou Enlai e servendosi del cenno del "sogno di una regina"?
Se Antonioni non fosse stato mosso da profonda amicizia e curiosità nei confronti del paese, non sarebbe venuto in Cina. Se avesse potuto prevedere a cosa sarebbe andato incontro, non si sarebbe certo invischiato nelle acque torbide della politica cinese. Dl canto suo, Zhou Enlai invitò Antonioni perché ne apprezzava la curiosità e la cordialità. Come sappiamo, Zhou Enlai era un esperto in propaganda estera.
Con la sua conoscenza del mondo, l’acutezza e l’intuizione aveva compreso l’inutilità e il disgusto della vuota propaganda delle "guardie rosse" durante Rivoluzione culturale. Zhou sperava quindi di poter contare sullo sguardo di un personaggio occidentale – non solo di fama mondiale, ma anche vicino alla Cina – per presentare il Paese in un linguaggio famigliare agli occidentali. Antonioni fu appunto la scelta migliore. Riassumeva questi cinque elementi: occidentale, famoso, amichevole, curioso e padrone del linguaggio visivo.
Un documentario ha bisogno della verità. In altre parole, la verità è l’anima di un documentario. Ma nella Cina estremamente chiusa dell’ultima fase della "Rivoluzione culturale", nel periodo di povertà e arretratezza taciute, nel periodo estremamente sensibile seguito alla caduta del "vice comandante" Lin Biao nel 1972 – era facile per Antonioni riuscire a vedere la Cina autentica?
Dopo meno di un mese dall’inizio delle riprese, Antonioni si consultò e discusse per tre giorni con la parte cinese per confermare l’itinerario e il percorso. Non poté fare a meno di scendere a compromessi e di riprendere le scene che gli avevano programmato: le operaie che dopo il lavoro restavano a studiare le opere del presidente Mao, i bambini dell’asilo che giocavano e danzavano…
Riuscì comunque a catturare anche molte immagini autentiche e storiche: la sinuosa Grande muraglia, i flutti delle acque di Suzhou, i mercati contadini con le teste che si accalcavano sulla poca merce, la piazza Tian’an men attraversata da poche biciclette e quasi nessuna automobile, le persone che facevano Taiqi sotto le antiche mura cittadine, le finestre dei giardini tradizionali, eccetera.
Una persona non gradita
Nel 1973 la proiezione di "Chung Kuo" ebbe un enorme successo in Occidente. Ma nel 1974, quando Jiang Qing vide il film, andò su tutte le furie. Soprattutto quando si accorse che la musica di sottofondo per la scena dei maiali era una delle sue "opere modello". Il Quotidiano del popolo ne commentò subito le "intenzioni malvagie e i metodi indegni". Subito dopo, a Pechino si aprì il Congresso nazionale, che denunciò il film per "l’attacco feroce e le calunnie" nei confronti della "prospera Cina socialista", della "straordinaria Rivoluzione culturale e proletaria " e del "grande popolo cinese". Anche altri organi del governo cinese dichiararono Antonioni " persona non gradita", poiché col suo "Chung Kuo" aveva temerariamente diffuso "il lato negativo e arretrato" della Cina socialista.
Nel 1979, tre anni dopo la scomparsa dalla scena politica della Banda dei quattro capeggiati da Jiang Qing, la Cina riconobbe il grave errore commesso nel criticare Antonioni e il suo film e presentò delle scuse al regista e alla troupe. In apparenza la vicenda, che aveva suscitato grande trambusto, poteva ritenersi conclusa. Ma è davvero andata così?
Non possiamo lasciar svanire dei fatti storici, prima che vengano assimilati (sia negli aspetti negativi che positivi) e che riescano quindi a incidere un autentico valore storico nella memoria collettiva. Il passato non è fumo. Se vado a recuperare i fatti di quarant’anni fa, non è per raccontare ai più giovani una storia bizzarra. Se torno ancora una volta sulla critica cinese al film "Chung Kuo", è perché dietro tale vicenda c’è una profonda lezione che merita ancor oggi di essere assimilata. Per essere più espliciti: ancora oggi alcuni funzionari della Cina – pur trattandosi di personalità del mondo della cultura – sembrano ancora fermi alle critiche che furono avanzate a Antonioni.
Ci sono ancora incomprensioni piuttosto profonde nella presentazione e nella comunicazione dell’immagine della Cina all’esterno e nella creazione del soft power della cultura cinese. Cambiano i fatti, le persone e la forma, ma nella sostanza gli errori restano gli stessi.
Il sogno dei cinesi moderni: l’industrializzazione del paese
I cinesi condannarono un film fatto per gli stranieri perché un intellettuale occidentale dell’"epoca post industriale" aveva un sistema di valori, un senso estetico, obbiettivi e criteri di giudizio sul progresso sociale completamente diversi da quelli dei cinesi, all’epoca ancora impegnati a percorrere il cammino verso l’industrializzazione. Temo che non possiamo nemmeno immaginare lo shock provato da Antonioni quando mise piede nella Cina di quarant’anni fa.
A stupirlo, non furono i macchinari che misuravano la pressione dell’acqua, né il ponte di Nanchino sul fiume Azzurro o il canale d’irrigazione Bandiera rossa. E neanche il satellite artificiale che trasmetteva la melodia "l’Oriente è rosso". Piuttosto, [fu stupito da] "la tranquillità e la calma delle persone che vivono qui".
Citando Antonioni, diversamente dall’attitudine e dall’esistenza calma e tranquilla dei cinesi, in Italia e "nella società occidentale la modernità aveva prodotto un’enorme crisi e la velocità domina tutto!", "anche le persone".
Antonioni aveva avuto delle impressioni chiare e precise sulla Cina e aveva compreso i danni della società industriale occidentale; aveva tratteggiato con chiarezza la visione della "società post industriale" propria dell’intellettuale occidentale. Il regista non immaginava di imbattersi nella resistenza dei cinesi, che avevano opinioni sul progresso completamente diverse dalle sue.
Quali erano dunque le ambizioni e le aspettative storiche dei cinesi (compresi molti cinesi contemporanei)? Analizzando la questione da un punto di vista storico-economico, l’ideale sociale dei cinesi moderni è molto semplice: l’industrializzazione del Paese. La “strada della prosperità e della forza” con cui si riempiono la bocca politici e luminari, e le speranze che animano i dibattiti della gente, significano in concreto l’aumento della produzione industriale e agricola.
Dal "Piano per la ricostruzione Nazionale" di Sun Yat-sen al "superare l’Inghilterra, raggiungere gli Stati Uniti" di Mao Zedong, fino alle Riforme e apertura di Deng Xiaoping, che si tratti di sconfitte radicali o di progressi affidabili, di lezioni fanatiche nella forma di utopie o di solidi risultati mercantilistici, tutti puntano in un’unica direzione. Tale direzione a volte è stata definita come "controllare i barbari attraverso i barbari", altre volte come "nuova Cina". O ancora "spiccare nella comunità internazionale", o "quattro modernizzazioni", o "riforme e apertura".
Ma l’essenza è sempre inseguire, se non sorpassare, i paesi sviluppati. Quale è il senso più profondo di tale sorpasso? La modernizzazione della nazione, cioè l’industrializzazione del periodo successivo alla rivoluzione industriale occidentale. Questi sono diventati anche i criteri per giudicare ciò che è giusto e sbagliato, per distinguere il bello dal brutto, per distinguere noi e i nemici della società cinese.
L’ "idillio orientale" che esitiamo a riconoscere
Quindi da un lato ci sono le personalità e il sistema di valori propri del "post industrializzazione", consapevoli dei danni che questa ha arrecato all’umanità. Dall’altro i cinesi con un sistema di valori e un senso estetico propri di una fase di industrializzazione che vede tale processo come manna dal cielo. Come possono le due parti non entrare in conflitto e cadere in reciproche incomprensioni? I cinesi celebrano -e sperano che gli altri celebrino- ciò che per altre nazioni è ormai superato e si preoccupano di allontanare, arrivando a ritenere volgare, cose che ritengono “primitive”, ovvero ciò che per gli occidentali è il tesoro della cultura tradizionale.
Il conflitto che scaturisce dalle diverse fasi di sviluppo potrebbe permettere un incontro e una reciproca comprensione. Invece si acuisce perché subentrano altri fattori e diventa un insormontabile divario mentale che ostacola la comprensione. Il più grave, nonché più pericoloso tra questi "fattori aggiuntivi", è che in tale incomprensione cognitiva, viene introdotta una cognizione di lotta di classe internazionale carica di sfumature nazionaliste.
Ne consegue un appiattimento della comunicazione tra qualunque lingua. Ogni genuina spiegazione si tramuta in ipocrisia, ogni consenso basato sul buonsenso diventa un ostacolo alla comunicazione. È questa la lezione principale [impartitaci] dalla critica a "Chung Kuo"!
Tale soliloquio non tiene conto né delle diverse fasi storiche né dei differenti obbiettivi delle nazioni. Si continua così a dare adito a commenti inappropriati e a critiche violente al mondo esterno. Come possiamo continuare a usare il nostro sistema di valori e [il nostro] concetto di sviluppo per osservare le altre nazioni?
Con il rafforzamento dell’economia cinese, questa ignoranza si è fatta ancora più arrogante e presuntuosa. Ne conseguono le chiacchiere senza senso degli esperti nei programmi televisivi. Parlando della visita in Cina del capo di stato inglese e altri capi europei, c’è chi ha commentato: "Osservano il nostro sviluppo e vengono in Cina per chiedere consiglio e per imparare". Ne conseguono anche le canzoncine per imparare il cinese al Gala di Capodanno della Cctv.
Allo stesso modo, alcuni studenti che avevano studiato in Unione Sovietica negli anni Cinquanta del secolo scorso, anche se oggi sono già in là con gli anni, restano saldamente ancorati all’ex Unione sovietica. Viene del tutto trascurato il fatto che il Pil pro capite della Russia abbia raggiunto i 14.592 dollari e superato di quasi tre volte quello della Cina. Ci si limita a criticare "la lezione del Partito comunista defunto" e "la catastrofe del popolo".
Considerare la lotta di classe come un criterio universale produce un’ aria stantia e guasta. Inoltre complica la comprensione dei profondi cambiamenti che interessano la Cina e il resto mondo. Ancora meno comprensibile è la tesi ripetuta dai leader cinesi. Quella della "comunità di interessi" e delle "comunità dal destino comune" tra Cina, Europa e Stati Uniti.
Ricordate: il soft power non è una forza repulsiva.
Ricordate cosa ci insegna la critica a "Cina".
[Traduzione di Lucia De Carlo per Caratteri Cinesi, pubblicato su Internazionale]