Trenta giorni, tanto dura il viaggio in Cina di Michelangelo Antonioni e della sua troupe. Tra maggio e giugno del 1972, dopo una complessa partita diplomatica e l’invito ufficiale di Zhou Enlai, il regista raggiunge finalmente la Repubblica Popolare. Missione: percorrere migliaia di chilometri e visitare ospedali, fabbriche, campagne, metropoli, i ponti di nuova costruzione e la prima ‘sede’ del Pcc a Shanghai.
I fuochi della Rivoluzione Culturale ancora covano sotto le ceneri. La Repubblica Popolare si è da poco risvegliata da una stagione che ha visto scomparire nel segno della ferocia due generazioni di intellettuali. La Cina è – più di prima – la Cina del Presidente Mao, colui che ha rinnovato i fasti della rivoluzione assoggettando un popolo, la sua classe politica, demiurgo assoluto della vita di ogni singolo cinese.
A maggior ragione in Occidente la Cina era percepita come la terra del socialismo realizzato, alla quale era necessario aprirsi, favorendone magari la conoscenza attraverso una rappresentazione che fosse al contempo documentaria e iconica, un ritratto abbozzato ‘dal vero’ e che pure si presentasse quale paradigma di una forma ideale.
In questo solco sembrerebbe inserirsi l’ambizioso progetto di Michelangelo Antonioni, ovvero girare un documentario ‘dal basso’ che dimostri agli occhi ignari degli occidentali come sia possibile che una nazione di operai e di contadini, di anziani e di bambini – moltissimi bambini – possa vivere senza eccezioni nel segno dell’utopia.
Girato a colori, la prima trasmissione di Chung Kuo, Cina fu tuttavia in bianco e nero sugli schermi della Rai. Venne poi replicato ben sette anni dopo – quando già aveva assunto un valore a dir poco archeologico, visti gli stravolgimenti della politica interna cinese proprio a partire dal 1973 –, questa volta a colori, per poi scomparire, almeno in Italia, fino al 2007.
Un lungo periodo di buio che appartiene al mito, alla tessitura documentabile solo dalla pazienza di chi volesse ricostruire le comparizioni nei festival piccoli e grandi, nelle rassegne specializzate. La ricostruzione storica delle repliche di Chung Kuo, Cina è un’attività per nulla oziosa. Dopo aver preso visione delle quasi quattro ore di montato, infatti, è molto difficile rispondere con prontezza all’interrogativo «perché una simile rimozione?».
Una ragione ci sarebbe, azzardata perché forse troppo schiacciata sull’orizzonte politico di quegli anni, eppure assai concreta. In verità il lavoro di Antonioni fu da subito inviso alla sinistra italiana. La stessa decretò, in estrema sintesi, che quella pellicola puntava a decostruire il verdissimo mito cinese, a rappresentarne solo gli aspetti ‘provinciali’ (l’estrema povertà, la granitica pudicizia di una vita semplice), tralasciando volontariamente le magnifiche sorti e progressive del corso maoista.
Allo stesso modo, ma per ragioni diverse, il documentario non riscosse il minimo consenso presso gli apparati cinesi. Anzi, divenne uno dei corpi del reato che l’ultrasinistra reduce dalla Rivoluzione culturale (in questo caso nella persona di Jian Qin, moglie di Mao) imputò a Zhou Enlai, ritenuto responsabile di una ‘scellerata’ politica di apertura verso l’Occidente (Nixon era stato in visita in Cina a febbraio del 1972), terreno letale dal quale era sorto il frutto del peccato a firma Antonioni.
Lo stesso si guadagnerà per voce del «Renmin Ribao» la scomunica, causa esplicita ostilità verso il popolo cinese. Insomma, Chung Kuo, Cina scontentò proprio tutti, tanto da meritare – appunto – una veloce e indolore sparizione.
Malizie della ricezione – fenomeno organico, dotato di una sua beffarda fisiologia -, riporre oggi l’attenzione ai calligrafici ritratti di cui è letteralmente contrappuntata la pellicola di Antonioni, ha un sapore quasi sinistro. Unheimliche, avrebbe scritto Freud, ovvero sinistro perché in qualche misura riconducibile a qualcosa un tempo familiare, e che ora si ripresenta sotto il segno del fantasmatico, di un rimosso che ritorna sotto fattezze angeliche oppure diaboliche. Quella Cina è oltre il passato remoto, e forse già nel 1972 agli occhi di qualcuno apparve tale.
Certo, pur nell’arco delle opere ‘minori’, Chung Kuo, Cina rappresenta un documento sensibile sulla irriducibile ricerca estetica di Antonioni. Elementi di continuità semantica esistono – e sono ancora evidentissimi – tra questo racconto di viaggio per immagini e il suo cinema precedente, quasi fossero in esplicita continuità. Il gusto per il ritratto, l’epica degli oggetti inanimati, l’esaltazione della funzione poetica dell’inquadratura, sono solo alcuni degli aspetti che hanno resistito al mutare della ricezione del pubblico di cui sopra.
Dall’altra parte, è forse tempo di rivedere le accuse che la sinistra mondiale – si potrebbe dire con una piccola concessione umoristica – rivolse all’esperimento di Antonioni. Quello che fine ad allora era stato il regno eletto del dominio dell’Estetica (e così comparirà ancora anni dopo, in pellicole meglio blasonate come L’ultimo imperatore di Bernardo Bertolucci, solo per citare un esempio eclatante), nella visione del regista ferrarese mutava pelle, diventando il paradigma di una speranza per tutti i popoli oppressi del mondo, anche di quelli oppressi dalla parvente libertà capitalista.
Insomma, banalizzando, la Cina diventava ora il paese dell’Etica. Ma come si può rappresentare un’utopia, come si può raccontarla ‘dal vero’ senza che essa diventi retorica, senza che si ossifichi nelle icone dei capi politici, o nella riduzione oleografica dei manifesti di propaganda? Molto semplice: dandole un volto. Di chi sono questi volti?
Sono i volti dei bambini e delle loro madri, dei contadini, degli anziani, insomma di coloro che Mao – almeno sulla carta – aveva ricondotto al centro della funzione politica della Repubblica che lui aveva contribuito a fondare, a proteggere, anche ricorrendo al sangue, alla repressione omicida del dissenso. Sono loro i protagonisti di un’epica nuova che Antonioni contribuisce ad amplificare, cantandola.
Antimaoista l’opera di Antonioni? Al contrario, intrisa di quella visione sin nella tessitura ‘allegorica’ della trama del suo documentario. Basti pensare all’ampio incipit, quando la cinepresa entra nella stanza di una clinica ostetrica, dove un’operaia di trentacinque anni – età ritenuta assai avanzata allora per una gravidanza – sta per partorire senza l’ausilio di antidolorifici, ma della ‘semplice’ agopuntura.
Insomma, il documentario di Antonioni si apre con la nascita di una nuova vita. Non poco, se si considera che il capitolo immediatamente successivo è dedicato ai bambini di Pechino, gli stessi che oggi – rilievo non ozioso – hanno poco più di cinquant’anni. Chissà se tra loro vi era qualche membro della classe dirigente della Cina dei nostri giorni, la nazione che ha inventato l’economia socialista di mercato…
I piccoli figli della Repubblica Popolare dominano le inquadrature dall’allure raffaellesca. Sono loro l’esemplificazione immediata della ‘nuova’ Cina di Mao, loro il correlativo oggettivo di una rivoluzione che aveva il sapore eversivo dell’infanzia.
Solo in ultima battuta giungono le fabbriche (un cotonificio, e pochissimo altro), poi le opere urbanistiche che mutarono il profilo stesso dell’orizzonte paesaggistico cinese. Corrispettivo analogico dei bambini sono, in una battuta successiva, i contadini, i lavoratori della terra, ritratti nell’essenza della loro dignitosa povertà, uomini e donne un tempo oppressi dalla miseria e che nel 1972, al contrario, operano per la prosperità – e la dignità – della propria nazione.
Molto spesso la cinepresa indugia sulle figure titaniche che compongono i manifesti della propaganda murale. Quasi a voler segnare una continuità di senso (i manifesti ritraggono le classi subalterne quale motore della rivoluzione, e così è nella realtà delle cose), e allo stesso tempo una profonda discontinuità (la realtà è ben più varia e ricca dell’oleografia vagamente sovietica dell’epica di stato).
Difficile, allora, comprendere a pieno le ragioni del livore che accomunò comunisti italiani e cinesi contro il documentario di Antonioni. Con la distanza offerta dal trascorrere degli anni – quasi mezzo secolo, per la precisione –, la sensazione è che l’adesione estetica di Antonioni allo spirito della rivoluzione di Mao (quantomeno quello che dal regime era spacciato come tale) fosse per lo più completa, entusiasta.
Peregrino chiedere ad Antonioni di ritrarre anche solo per riflessi le macerie della Rivoluzione culturale: se così avesse fatto, il suo documentario non avrebbe mai ricevuto il benestare dei tanti funzionari che lo seguirono passo passo nei trenta giorni di lavoro della troupe. Emblematico – chi lo ha visto ne avrà senza dubbio memoria – il finale di Chung Kuo, Cina, composto da una lunga ripresa delle evoluzioni di acrobati e giocolieri all’interno di un teatro.
Virtuosa arte dell’equilibrio precario, dell’illusione fisica, dell’esercizio marziale, completamente incentrato sul corpo dell’atleta – acrobata, senza ricorrere ad alcuna alienazione scenica (niente luci, nessuna forma di recitazione vocale). Insomma un’altra plausibile allegoria di quella Cina che con abile colpo di reni e un triplo salto mortale appariva povera e dignitosa, semplice e misteriosa, dittatura del popolo fondata sulle uguali differenze, dove Mao non è – solo – in carne e ossa, ma nella fibra estetica dei cinesi, maschera latente di ogni minima forma di vita.
*Danilo Soscia è nato a Formia nel 1979. Studioso di letteratura di viaggio e di cultura cinese, vive e lavora a Pisa. Ha esordito nella narrativa nel 2008 con Condòmino (Manni). Ha curato il volume In Cina. Il Grand Tour degli italiani verso il Centro del Mondo 1904-1999 (Ets) e In Giappone. Scrittori italiani alla scoperta del Sol Levante (Ets), di prossima uscita.
[L’autore ringrazia per le preziose suggestioni il prof. Mario Pezzella, Scuola Normale Superiore di Pisa]