Terra di opportunità, dove "bisogna esserci", ma in cui è anche terribilmente difficile restarci. La Cina ha perso un po’ del suo fascino agli occhi degli imprenditori stranieri perché troppe storie sono finite male. Alla radice, non solo gli odierni problemi della società cinese, corruzioni in primis, ma anche un gap culturale difficile da colmare e una serie di "attacchi" che alcune multinazionali percepiscono come fumus persecutionis. China loses its allure. Così l’Economist lancia l’allarme: alcune multinazionali stanno lasciando la Cina. Tra queste Revlon e Garnier (gruppo l’Oréal), entrambe leader del settore cosmetici e i rivenditori al dettaglio di tecnologia Best Buy e Media Markt nonché il gigante Yahoo che hanno già abbandonato. Le altre grandi aziende fanno fatica a rimanere. La catena di supermercati britannica Tesco si è trovata costretta a entrare in joint venture con un’azienda di stato cinese, il gigante della farmaceutica GlaxoSmithKline si deve difendere da pesanti accuse di corruzione. Apple è stata costretta a scuse pubbliche per aver offerto ai consumatori garanzie non adeguate mentre Starbucks è accusata di manipolare i prezzi. A marzo prossimo, inoltre, il governo cinese varerà una nuova legge a difesa dei consumatori. E sono in molti a credere che conterrà nuovi attacchi alle multinazionali.
Ma l’emergere della classe media cinese, e il conseguente nuovo mercato che si sta aprendo, è forse una delle storie più significative del nostro secolo. Nel 2000 solo il 4 per cento di chi possedeva una casa aveva degli introiti che potessero giustificare la sua appartenenza alla classe media, nel 2012 questa percentuale ha superato il 60 per cento. E nel 2022 si prevede arriverà al 75 per cento. Significa un mercato di 630 milioni di persone. Un piatto a cui poche aziende sono disposte a rinunciare, nonostante le difficoltà.
I consumi del mercato cinese sono solo l’8 per cento di quelli mondiali, me sono quelli che maggiormente hanno contribuito alla crescita globale nei difficili anni che vanno dal 2011 al 2013. Ma nel frattempo la crescita è rallentata e i costi sono lievitati. I giovani di talento sono sempre più difficili da trovare, e le loro paghe sono in rapido aumento. Inoltre, le “caratteristiche cinesi” dell’economia rendono impossibile fare affari in molti settori. Banche, intermediari di borsa e operatori dell’internet possono accedere all’ex Impero di mezzo a prezzo di forti limitazioni, quando il mercato non gli è completamente precluso. E le aziende che non accettano le condizioni imposte dal governo rischiano di non poter accedere al bacino di consumatori che più di ogni altro si sta espandendo. Si stima che solo nel 2013 l’ammontare delle perdite delle aziende europee imputabili alle barriere di accesso del mercato cinese siano state di 17,5 miliardi di euro.
E poi ci sono i problemi atavici del sistema Cina. Corruzione, protezionismo, competizione iniqua con le aziende di stato, poca tutela della proprietà intellettuale, difficoltà di accesso al credito e ai fondi per l’innovazione. Se negli anni della crisi finanziaria la Cina sembrava l’ancora di salvezza per la maggior parte delle grandi aziende e delle multinazionali, oggi la maggior parte di loro sta lottando per rimanere, mentre alcune delle più importanti stanno cominciando a spostarsi altrove. Il Business Confidence Survey 2013 presentato dalla Camera di commercio europea a Pechino lo scorso maggio è il risultato di un sondaggio condotto tra oltre cinquecento imprese europee che operano in Cina. Evidenzia come rispetto agli anni passati sono sempre di più le aziende che lamentano perdite superiori al 20 per cento del fatturato. Ma quello che colpisce è la scarsa fiducia nel futuro. Solo il 30 per cento si dichiara ottimista sulla crescita dei propri giri di affari nei prossimi due anni, contro il 47 per cento registrato nel 2008. La percentuale scende ancora di più per quelle aziende che sono legate alle aziende di stato e, di conseguenza, al governo cinese. I dati del 2014, che usciranno a maggio, sembrano confermare questa tendenza.
Ma cos’è cambiato? “All’inizio (2003-2005) avevamo le società cinesi che venivano a cercarci per collaborare, oggi questo non accade quasi più. Quelli che prima erano dei partner oggi sono tutti dei concorrenti”. Così ci riassume la situazione Massimo Bagnasco, socio del progetto CMR Beijing (uno degli studi di architettura italiani più attivi in Cina) e membro del gruppo di esperti europei incaricato di preparare il documento per l’avvio del dialogo sul progetto di cooperazione sull’innovazione tra l’Unione europea e la Repubblica popolare. L’aumento della concorrenza è sicuramente uno dei primi fattori che ha contribuito a trasformare l’ambiente imprenditoriale della Repubblica popolare. “A parità di opportunità, [per un’azienda] c’è più difficoltà a posizionarsi in alto rispetto a quanto succedeva qualche anno fa”, ci spiega Davide Cucino, presidente della Camera di commercio Europea in Cina. Le realtà locali in questi anni hanno imparato e, anche se la qualità non eguaglia ancora quella che può essere offerta da un’impresa occidentale, hanno raggiunto un livello che soddisfa la richiesta del mercato di riferimento.
Massimo Bagnasco sintetizza così: “la Cina ormai da tempo si è palesata come seconda economia del mondo. Durante gli anni di crisi la situazione si è fatta ancora più chiara. Ma questo ha comportato un complessivo cambio della politica economica. La Cina da fabbrica del mondo mira a trasformarsi in una società di servizi. Ovvero più consumi e meno produzione”. Per questo secondo lui i veri problemi di oggi sono l’accesso ai finanziamenti e ai fondi pubblici. Sono queste le situazioni che creano difficoltà alle aziende per l’operatività locale. La Camera di commercio europea denuncia da anni l’assenza di parità di condizioni tra le aziende pubbliche e le aziende private. “La disparità si manifesta nei settori più importanti: telecomunicazioni, energia, automotive, ambiente, servizi finanziari, assicurazioni. Ovvero dove sono forti le aziende di stato” ci spiega Davide Cucino. “Il vero problema di questi settori non è tanto che ci sia una specie di monopolio ma che i regolamenti li fanno le agenzie di governo e poi, a capo dei colossi di stato, ci sono ancora uomini di governo. È come se l’arbitro e i giocatori giocassero nella stessa squadra. Non è possibile”.
Questi discorsi sono ancor più validi se si osserva la realtà delle aziende italiane che operano in Cina. Il cosiddetto nanismo delle imprese italiane – “anche le nostre aziende medie, qui sono realtà microscopiche” sottolinea Bagnasco – rende il problema dell’accesso al credito ancora più urgente. “Le banche straniere e italiane ti danno un supporto solo se guardano alla consistenza della tua società, ma quelle cinesi non ti prendono neanche in considerazione. Oggi la condizione di startup in Cina è veramente difficile. Non è più possibile pensare di venire per operare un anno o due. Un business plan deve contemplare tempistiche più lunghe. E le aziende oggi si trovano nella condizione di dover sapere a priori se avranno accesso ai fondi. Oggi bisogna investire su un periodo più lungo”.
Nonostante questo “non abbiamo notizia di aziende che vogliano spostare gli investimenti dalla Cina” ci spiega ancora Cucino. Anche Antonino Laspina, direttore dell’Ice di Pechino, non registra per le aziende italiane la tendenza a lasciare la Cina. “L’anno passato ci sono state centinaia di milioni di euro di investimenti italiani. Non è lo stesso flusso che si è registrato fino al 2008, ma le aziende continuano ad arrivare. In Cina abbiamo oltre duemila imprese, delle più diverse tipologie, ma oltre il 90 per cento sono piccole e medie aziende. Il mercato sta qui. Andar via significa precludersi questo mercato, o non poter godere dell’integrazione in processi produttivi più ampi che comunque si svolgono qui. Bisogna stare in Cina, per la Cina”. Ed è qui che gli imprenditori e il governo cinese convergono. La Cina sta diventando un paese normale. Non c’è più la crescita a due cifre che permetteva ingenti guadagni in tempi strettissimi, la produzione manifatturiera è in calo, la classe operaia conquista sempre più diritti, le politiche di protezione ambientale cominciano a farsi sentire anche sui costi vivi delle aziende e molte realtà cinesi hanno raggiunto uno standard che può tranquillamente fare a meno del contributo del nostro know-how.
È la scommessa più interessante della Nuovissima Cina: urbanizzare le arie rurali e riportarci quei lavoratori migranti che i dati ci dicono non essere più il terzo stato ma una nuova classe di consumatori. La classe dirigente cinese ne è cosciente. Il programma di riforme uscito a novembre dal Terzo plenum – l’assemblea plenaria che ha definito le linee politiche e economiche per il prossimo decennio – è un programma dove molte delle problematiche esposte vengono affrontate. Per la prima volta nella storia della Cina moderna il settore privato viene collocato sullo stesso livello di quello pubblico. Significa che esiste la volontà di rompere i monopoli di stato e toccare gli interessi di molti potenti. Ma non sarà semplice, né immediato. È per questo che le multinazionali che possono permetterselo lasciano e gli imprenditori che rimangono comunque non si fidano. “Le aziende rimangono in Cina perché fuori non c’è nulla”, ammette Bagnasco a fine intervista. “È una questione di opportunità. In Europa, cos’è che si muove?”.
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