Nell’ultimo romanzo di Cyrus Mistry, autore indiano tradotto da Metropoli d’Asia, una storia d’amore e ribellione si interseca con la condizione disperante dei khandhia, i portatori di cadaveri della comunità parsi di Bombay. Uno sguardo originale e atipico sul ghetto d’oro dei zoroastriani di inizio secolo scorso.
Della varietà di sottogruppi etnici e religiosi in India, quella dei parsi è probabilmente l’unica che il grande pubblico tende a non associare alla miseria. Migrati dalla Persia, i parsi hanno trovato nel fiore all’occhiello della colonia britannica, Bombay, la propria isola felice, ghettizzandosi tra le mura dorate del proprio benessere protette dalle tradizioni millenarie della religione zoroastriana, mantenute pressoché intatte col passare dei secoli.
Cyrus Mistry, con Le torri del silenzio (edito da Metropoli d’Asia, 250 pagine), ribalta il classico punto d’osservazione del mondo sulla comunità parsi, per comodità e fascino del “vincente” appollaiato dall’alto al basso della saga imprenditoriale di tycoon del calibro di Ratan Tata, un inno al successo ottenuto in vita in mezzo alla desolante povertà diffusa della società indiana.
Phiroze, secondogenito predestinato alla carriera spirituale nel solco tracciato dal padre – ministro della fede zoroastriana nella Bombay della prima metà del novecento – disattende sistematicamente le aspettative della propria famiglia, intrattenendosi sin dall’adolescenza in frequentazioni sconvenienti, tra sobborghi di puttane e un’amore incosciente – e dirompente – per Seppy, figlia di uno dei tanti parsi di casta bassa addetti all’operazione più impura e sacra della tradizione zoroastriana: la pulizia e purificazione dei cadaveri prima che vengano dati in pasto agli avvoltoi in cima alle torri del silenzio di Doongerwaadi.
Per amore Phiroze rinuncerà al nobile lignaggio di famiglia diventando un khandhia, portatore di cadaveri, ultimo tra gli ultimi nella piramide sociale parsi. Un destino che sarà chiamato a compiere nella sofferenza ulteriore del lutto, con la morte improvvisa della moglie e una figlia a carico.
La vicenda personale di Phiroze e degli altri khandhia, dove dissolutezza ed alcol diventano gli unici alleati nella convivenza giornaliera forzata coi rituali della morte, si interseca con la lotta per l’indipendenza indiana, condotta coi metodi non violenti del gandhismo.
Pagina dopo pagina, la condizione disperata dei portantini parsi spremuti fino all’osso dal gran consiglio della comunità, viene edulcorata da siparietti ironici raccontati in prima persona, mentre sullo sfondo i grandi eventi della Storia fanno il proprio corso.
L’ascesa del nazismo in Europa e la trattativa per l’indipendenza tra il Raj britannico e la corona inglese appaiono, in superficie, eventi lontani e troppo complessi per influenzare il quotidiano di Phiroze e i suoi. Ma Mistry, con notevole abilità narrativa, riesce a far intravedere il filo rosso che collega il microcosmo parsi col macrocosmo mondiale.
Lo scontro tra oppressi e oppressori, le istanze di dignità e rispetto, si sovrappongono perfettamente sul piano nazionale e locale. La guerra non violenta di Gandhi e Nehru, nel dettaglio, si ripete nei rapporti di potere squilibrati tra i khandhia e il panchayat parsi; mentre il Mahatma va e viene dalle prigioni inglesi, Phiroze diventa il punto di riferimento della manovalanza della morte, bistrattata dalla comunità pur ricoprendo un ruolo riconosciuto come indispensabile.
Le torri del silenzio, in definitiva, è un romanzo a più livelli che offre al lettore una classica storia d’amore e ribellione ma, contemporaneamente, presenta le contraddizioni sociali tipiche della società indiana in un contesto atipico come la comunità parsi di Bombay. Le pieghe dell’ingiustizia all’ombra dello sfarzo.