Il 26 dicembre è il 120esimo anniversario di Mao. Dovevano essere festeggiamenti indimenticabili, a un certo punto dell’anno si è addirittura pensato che i natali di Mao dovevano essere paragonabili a quello che il Natale era in Occidente. E invece pare proprio che il presidente Xi voglia tenere la ricorrenza in sordina. Un’analisi.
“L’Oriente è rosso, il sole sorge e in Cina è nato Mao Zedong”, così per decenni hanno intonato centinaia di milioni di cinesi fedeli al fondatore della loro patria. E ancora oggi è tra i motivi che si sente di più. È finanche una suoneria del cellulare, a pagamento. Il ritratto di Mao campeggia ancora sulla porta di ingresso della città proibita e domina Tian’anmen, una delle piazze più grandi del mondo. Il cosiddetto turismo rosso trasforma le economie dei villaggi simbolo della vita del Grande Timoniere. E il prossimo 26 dicembre sarà il 120esimo anniversario dalla sua nascita.
Dovevano essere festeggiamenti indimenticabili. I maoisti più accaniti chiedevano addirittura che diventasse una festività nazionale di modo da sostituire il “Natale fittizio” degli occidentali con il “vero natale di Mao”. Ma negli ultimi giorni il concerto dell’Esercito in suo onore ha cambiato nome da “più rosso è il sole, più caro è il presidente Mao” a un più anonimo “galà di capodanno”. Ora tutti gli eventi organizzati per commemorarlo dovranno ricevere in anticipo l’approvazione degli organi competenti e la serie tv da cento episodi che doveva ripercorrere le gesta del Grande Timoniere è stata sostituita da una fiction sui grandi generali cinesi.
La figura storica di Mao è controversa. Alcuni lo considerano il tiranno che ha provocato la morte di decine di milioni di persone, altri lo venerano come una divinità e lasciano addirittura offerte ai piedi delle sue statue. I riformisti vorrebbero che il Partito non facesse più riferimento al suo pensiero, mentre i conservatori – che in Cina sono a sinistra – vorrebbero che si tornasse ai suoi insegnamenti: avere meno, ma tutti.
Per il presidente Xi è un rompicapo. In questo primo anno al potere ha mostrato di avere fatto sua la retorica maoista. Ha lanciato quella che lui stesso ha definito una “campagna per la rettificazione della linea di massa” ovvero la ricerca della connessione tra i vertici e la base del Partito, la lotta contro i formalismi, la burocrazia, l’edonismo e la stravaganza dei quadri.
Anche il controllo sull’informazione, che nella sua idea dovrebbe essere asservita al Partito, può essere letta in questo senso. Ma di segno opposto sono le politiche che porta avanti. Il Plenum di novembre, pietra miliare delle volontà del suo governo, ha sancito che nel “socialismo con caratteristiche cinesi” sarà il mercato a giocare “un ruolo decisivo” nell’economia.
Le statue di Mao sono emblematiche della confusione. Quelle di cemento erette come funghi durante la Rivoluzione culturale – berretto militare e braccio alzato in segno di saluto – sono quasi tutte scomparse fagocitate dalla modernità. Nel Guangdong, la regione che per prima ha sperimentato le zone economiche speciali, sono completamente sparite.
Eppure due giorni fa a Shenzhen, metropoli della Cina meridionale simbolo dell’epoca di apertura e riforme, ne hanno inaugurata una nuova. È un Mao assiso, d’oro e di giada, che vale di quasi 12 milioni di euro. È morto Mao, evviva Mao.
[Scritto per Il Fatto Quotidiano; Foto credits: Cecilia Attanasio Ghezzi]