Cina – Lunar rover, la sfida dell”innovazione domestica’

In by Gabriele Battaglia

La chiamano “innovazione domestica” e funziona così: si copia la tecnologia altrui, la si riadatta al contesto locale e poi la si esporta come made in China nel Paesi che non possono permettersi l’originale. Ora però la Cina vuole diventare un’economia evoluta e produrre vera innovazione. La chiamano “innovazione domestica” e funziona così: si copia la tecnologia altrui, la si riadatta al contesto locale e poi la si esporta come made in China nel Paesi che non possono permettersi l’originale.La Cina ha costruito così buona parte delle proprie fortune degli ultimi trent’anni, ma ora vuole cambiare e diventare un’economia evoluta, che produca innovazione “vera” e che sappia dettare quei salti qualitativi di paradigma che cambiano il mondo (disruptive innovation).

È un guanto di sfida al mondo, ma proprio mentre si prepara il plenum che detterà le nuove linee guida dell’economia cinese, il Dragone estrae dal cilindro un ultimo, clamoroso prodotto dell’innovazione domestica. E lo fa proprio nel campo che per definizione significa “futuro”: l’esplorazione spaziale.

Il nuovo Lunar rover cinese è paurosamente simile a Opportunity della Nasa, che gironzola per Marte da quasi un decennio. È stato presentato a fine settembre, nopn ha ancora un nome, e da allora se ne parla. Oggi, il South China Morning Post di Hong Kong esce con le testimonianze degli stessi scienziati cinesi che, così sembra, sono abbastanza seccati con il proprio governo per l’ennesima, presunta, scopiazzatura.

Bisogna dire che quando copiano, i cinesi sono creativi. Dell’Opportunity, il nuovo aggeggio made in China ha la schiena piatta ricoperta di pannelli solari, il lungo collo che termina con una testa-periscopio farcita di telecamere e un braccio meccanico fissato alla parte anteriore. Le ruote però sono diverse: invece dei massicci cingoli dello “zio d’America”, il rover cinese ha una sorta di grate metalliche che – osservano gli esperti – ricordano terribilmente quelle del Lunokhod 1, il primo rover lunare lanciato dall’Unione Sovietica nel 1970. Par condicio cosmica.

Ma la vera notizia è che ora gli scienziati cinesi si inalberano. In sintesi: ci fanno spremere le meningi e poi copiano gli americani. “Hanno preso a prestito pesantemente da un progetto affidabile e già di successo”, dice per esempio il professore Wen Guilin, della Hunan University di Changsha.
Nel 2005, il governo chiese a tutte le università e agli istituti qualificati del Celeste Impero di proporre progetti per il rover. Il vincitore – così fu specificato – sarebbe stato scelto attraverso un processo equo e trasparente. Era quella la prima volta che l’agenzia spaziale – gestito dai militari in maniera piuttosto segreta – invitava scienziati civili a partecipare a un importante programma di esplorazione.

Molte università costituirono speciali team di ricerca composti dai migliori cervelli a propria disposizione, da cui scaturirono progetti originali e creativi. Propria squadra di Wen, per esempio, propose un rover con solo quattro ruote ma – così lui afferma – con una maggiore capacità di manovra su terreni accidentati.
A quel punto, le autorità fecero marcia indietro e si affidarono al design americano.

Zhu Jihong, professore di robotica che ha partecipato al concorso per conto della Tsinghua University, dice oggi che il risultato ha smorzato l’entusiasmo degli scienziati cinesi per l’innovazione: “All’inizio ci hanno detto che avrebbero incoraggiato il pensiero originale. Alla fine non si sono nemmeno presi la briga di fare un annuncio o di darci dei riscontri. In futuro, noi non parteciperemo più a nulla in cui c’entrino i militari”.

Meno sorpreso e più cinico è il professor Cao Qixin, il cui team dell’Università Jiao Tong di Shanghai aveva presentato il progetto di un rover simile a un ragno. A differenza dei programmi spaziali degli Stati Uniti e altri Paesi occidentali – dice – quello cinese non è finalizzato a spingere un po’ più in là i limiti tecnologici.

L’impressione più che fondata è che anche quella dell’esplorazione spaziale sia una mianzi gongchang – una fabbrica della “faccia” (leggi “prestigio”), il tutto a scapito di quell’innovazione di cui la Cina ha bisogno come dell’aria.
“Gli altri Paesi sperimentano anche qualche fallimento, nei loro programmi spaziali. Invece le missioni cinesi sono quasi sempre perfette”, osserva Cao. “Il punto è che abbiamo fiducia solo nelle tecnologie e nelle attrezzature provate e dimostrate. Possono anche non essere così avanzate, ma ti garantiscono il successo”.

Wen Guilin conferma, mostrando apparentemente (ma forse ironicamente) di comprendere le ragioni del governo: “Questo è un grande progetto, dove la creatività deve lasciare il posto alla praticità”. Chi lascia la strada vecchia per la nuova sa quel che lascia, ma non sa quel che trova. Tutto molto cinese, ma oggi non basta più.

[Scritto per Lettera43; foto credits: scmp.com]