Myanmar – Le sfide della crescita

In by Simone

Il ministro degli Esteri birmano, a margine di un incontro istituzionale a Roma, ha spiegato come il Myanmar sta affrontando il processo di apertura. Tra successi e grandi aspettative dal punto di vista economico, rimangono i dubbi circa la difesa dei diritti umani nel paese. L’analisi di Paolo Tosatti per China Files.
La prima volta ci aveva provato nel 2006, ma alla fine le aspre critiche mosse dalla comunità internazionale e i pesanti attacchi verbali e diplomatici dei vicini l’avevano costretto a rinunciare. Ora, a sette anni di distanza, il Myanmar è riuscito finalmente a raggiungere l’obiettivo che il governo del generale in congedo Thein Sein ha a lungo atteso: occupare la poltrona di presidenza dell’Asean, l’Associazione delle nazioni del Sud-Est Asiatico.

In una stanza fastosamente decorata con fiori gialli e viola, il 10 ottobre scorso il Myanmar ha ricevuto il testimone della guida dell’associazione dal sultano del Brunei, che continuerà a dirigere il gruppo dei dieci paesi membri fino alla fine dell’anno, al termine del quale il Myanmar entrerà ufficialmente in carica per i successivi dodici mesi.

L’occasione di occupare lo scranno presidenziale dell’Asean è una delle più importanti che siano capitate a Thein Sein, sia dal punto di vista politico che economico, dalla sua elezione a capo di stato nel febbraio del 2011.

Sotto il primo profilo l’assunzione della carica segna un taglio netto con il passato e offre la possibilità di mostrare all’intera comunità degli Stati la genuinità del cammino di sviluppo e democrazia che il paese ha compiuto negli ultimi due anni e mezzo. Se nel 2006 il suo predecessore Than Shwe aveva visto una levata di scudi circondare la poltrona di presidenza sulla quale avrebbe dovuto sedersi, obbligandolo a farsi da parte, oggi, seppure tra mille dubbi e perplessità, osservatori e analisti guardano a Thein Sein con un atteggiamento molto più possibilista.

In un’ottica economica, poi, la guida dell’Asean permetterà all Myanmar di interfacciarsi in modo diretto e da una posizione privilegiata con un mercato di 2,4 miliardi di consumatori, formato da paesi in rapido sviluppo ed estremamente competitivi.

Certo, la prova che attende il governo del Myanmar non è affatto semplice.

I progressi compiuti dalla dirigenza di Naypyidaw dopo le elezioni del 2010 (le prime, giova ricordarlo, dal 1990) in campo politico, sociale ed economico sono patenti e sotto gli occhi di tutti. Ma se esiste unanimità di giudizio sull’importanza dei passi avanti effettuati, ve n’è altrettanta sull’insufficienza di questi primi sforzi, cui dovranno seguirne ancora molti altri per trascinare il paese fuori dalla palude di arretratezza e isolamento in cui è stato trascinato da 60 anni di dittatura militare.

La liberazione della premio Nobel per la pace e leader della Lega nazionale per la democrazia Aung San Suu Kyi, le elezioni parzialmente libere dell’aprile del 2012, gli accordi di cessate il fuoco raggiunti con alcune etnie di minoranza da sempre in lotta con il governo centrale, il rilascio di prigionieri politici, le nuove leggi in materia di stampa, associazione, lotta alla corruzione e libertà di espressione e non da ultimo l’istituzione di una commissione indipendente sui diritti umani testimoniano una volontà di cambiamento e progresso.

Volontà che è stata ribadita pochi giorni fa dal ministro degli Esteri birmano Wunna Maung Lwin, ospite di una conferenza sul Myanmar promossa dai ministeri degli Esteri e dello Sviluppo economico italiani in collaborazione con l’Ocse e Osservatorio Asia. "Tutti i nostri sforzi", ha spiegato il ministro, "sono concentrati sull’aumento dell’inclusività politica, sul miglioramento della qualità della vita della popolazione, sulla riconciliazione nazionale e sul passaggio da un’economia isolata a controllo centralizzato a una aperta verso l’esterno e basata sul libero mercato".

Nel mettere in evidenza i progressi compiuti dal proprio governo, Maung Lwuin ha sottolineato che "per la prima volta dopo 60 anni in Myanmar le armi non parlano più. Stiamo lavorando per la pace e abbiamo messo fine ai conflitti con i 30 gruppi armati presenti nel paese. Vogliamo creare una nazione forte e stabile dal punto di vista democratico".

Dichiarazioni di indubbio valore politico, ma che prestano il fianco alle numerose critiche che una parte consistente della comunità internazionale e delle organizzazioni che si battono per la difesa dei diritti umani continuano a rivolgere all’esecutivo birmano.

In una recente intervista alla Reuters, ad esempio, Phil Robertson, vice direttore della sezione asiatica di Human Rights Watch, ha dichiarato apertamente la propria perplessità sugli interventi che il Myanmar sarà effettivamente in grado di portare avanti nell’area dell’Asean in materia di diritti umani.

E, come dimostra la recente ondata di attentati dinamitardi non rivendicati che ha investito Naypiydaw, l’ex capitale Yangon, Mandalay, le spiagge di Ngwe Saung e la città di Namkham, o le mai sopite tensioni che agitano lo stato Rakhine, nell’ovest del paese, dove la maggioranza buddista continua a vessare la minoranza musulmana dei Rohingya, la decantata pacificazione nazionale non può certo essere presentata come un risultato ottenuto, restando piuttosto un obiettivo da raggiungere.

Senza contare che, come ammesso dallo stesso ministro Maung Lwuin, se è vero che il parlamento birmano ha dato vita a un comitato per la riforma della Costituzione, che al momento riserva il 25 per cento dei seggi di ciascuna delle due camere ai militari in servizio, la completa eliminazione dei privilegi riservati alle forze armate si avrà solo "quando risolveremo i problemi con tutti i gruppi etnici presenti nel Paese". Ipotesi alquanto improbabile da qui al 2015, quando si svolgeranno le prossime elezioni.

Dal punto di vista dei progressi concretamente ottenuti, al governo di Thein Sein è andata meglio sotto il profilo economico.

La Banca mondiale ha appena rivisto al rialzo le proprie stime di crescita del Pil birmano, che nell’anno in corso dovrebbe aumentare non del 6,5 per cento come originariamente previsto, ma del 6,8. Una previsione condivisa anche dall’Asian development bank, che dimostra come l’apertura ai mercati esteri voluta dal governo abbia dato i suoi frutti e come il Myanmar stia rapidamente lasciandosi alle spalle l’arretratezza del sistema produttivo e la chiusura verso l’esterno che ne hanno imbrigliato fino ad oggi lo sviluppo.

Sfruttando la sua posizione di stato cerniera tra India, Cina e Sud Est Asiatico, la ricchezza di risorse naturali, la grande varietà di condizioni climatiche, un mercato domestico in crescita e la buona preparazione di una forza lavoro che costa mediamente un sesto rispetto a quella cinese, la Birmania è riuscita nel giro di pochi anni a emanciparsi dalla cronica povertà che l’ha afflitta per decenni, iniziando a crescere a un ritmo importante.

Anche su questo versante, comunque, le sfide non mancano.

Innanzitutto parallelamente al Pil sta aumentando anche l’inflazione, principalmente a causa della debolezza del kyat (la moneta birmana) rispetto al dollaro, che sta portando con sé un incremento dei prezzi dei generi alimentari e degli immobili, togliendo potere d’acquisto a singoli e famiglie e rischiando di limitare nel lungo periodo la competitività del paese.

In secondo luogo, come ha spiegato Aung Naing Oo, direttore generale del ministero per la Pianificazione nazionale e lo sviluppo economico presente al convegno organizzato dai dicasteri italiani, "pur essendo in pieno sviluppo, il nostro Paese continua a soffrire di debolezze strutturali: poche infrastrutture, sistema bancario e assicurativo arretrati, scarsità di capitali, di mano d’opera qualificata e in grado di usare la tecnologia".

A ciò si aggiunge una popolazione che per il 70 per cento vive ancora in zone rurali in condizioni di arretratezza e che per il 26 per cento soffre di indigenza cronica, con gravi sperequazioni nella distribuzione del reddito e della ricchezza e una serie di attività economiche informali che rappresentano a tutt’oggi una parte importante della produzione complessiva del Paese.

Per poter sviluppare il suo potenziale il Myanmar ha bisogno di investimenti stranieri e di know-how in campo tecnologico, energetico, delle infrastrutture e delle telecomunicazioni, che sta cercando di attrarre con una serie di leggi ad hoc studiate per calamitare capitali e cervelli dall’estero attraverso un sistema di sgravi fiscali e contributivi, agevolazioni economiche e incentivi all’investimento.

"Il nostro obiettivo è arrivare a una crescita del Pil del 7,7 per cento, riducendo la fetta di popolazione che soffre di povertà dal 26 al 16 per cento entro il 2015 e aumentando il Prodotto interno lordo procapite del 30-40 per cento rispetto al 2010", ha spiegato Aung Soe, vice direttore generale del ministero del Commercio, nel corso della conferenza dei giorni scorsi. "A maggio scorso abbiamo varato la National export strategy, che durerà cinque anni e che dovrebbe portarci ad aumentare l’interscambio con i nostri vicini, con l’Asean e con l’Unione europea. Puntiamo a uno sviluppo inclusivo, che diffonda una maggiore eguaglianza e benessere sociale".

In questo contesto, il primo banco di prova che attende la Birmania alla guida dell’Asean sarà quello dei Sea Games, i Giochi del Sud Est Asiatico, la manifestazione sportiva biennale che coinvolge gli atleti di 18 paesi, inclusi Cina e Stati Uniti, e che verrà ospitata dall’11 al 22 dicembre a Naypiydaw.

Viene spontaneo un parallelo con le Olimpiadi estive di Tokyo del 1964, che rappresentarono l’evento che segnò la rimonta del Giappone sul palcoscenico internazionale dopo la Seconda Guerra Mondiale.

Questo però sarà solo il primo dei molti gradini che il governo di Thein Sein dovrà superare nel corso dei prossimi 12 mesi, durante i quali, sottolinea l’Asian Tribune, l’esecutivo sarà chiamato a organizzare e presiedere oltre 1.000 tra vertici, meeting e conferenze, con decine e decine di paesi, organizzazioni, associazioni e membri della società civile.

Con gli occhi del mondo puntati addosso Thein Sein sa di non potersi permettere alcuna distrazione. Se riuscirà nella sua sfida di trasformare il Myanmar in un Paese moderno e democratico solo il tempo potrà dirlo.


*Paolo Tosatti è laureato in Scienze politiche all’università “La Sapienza” di Roma, dove ha anche conseguito un master in Diritto internazionale, ha studiato giornalismo alla Fondazione internazionale Lelio Basso. Lavora come giornalista nel quotidiano Terra.

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