Da discarica a recinto verde

In by Gabriele Battaglia

Il governo cinese ha lanciato la sua nuova campagna: si chiama Green Fence e punta a limitare l’inquinamento ambientale dai rifiuti. Ora la Cina non può più permettersi di importare rifiuti da tutto il mondo. Da discarica del mondo, la Cina punta a diventare il recinto verde del mondo. Ma la strada è tutta in salita   È un mercato che solo per quanto riguarda la plastica vale 5 miliardi di dollari. Per anni la Cina è stata l’immondezzaio del mondo. Così si è creato il business del riciclo e decine di migliaia di nuovi ricchi di cui alcuni hanno fatto l’intero tragitto che porta lo straccivendolo a diventare magnate.

Come l’indimenticabile personaggio del capolavoro di Yu Hua: Brothers. L’ex straccivendolo Li Testapelata diventa in meno di trent’anni l’arcimiliardario presidente Li che può decidere di fare un giro nello spazio o di radere al suolo un’antica città per costruire la sua nuova Liuzhen, tutta centri commerciali, luci al neon e palazzi svettanti. Ma adesso è arrivato il momento dell’aumento dei controlli perché il degrado ambientale ha raggiunto un livello tale che la Cina non può più permettersi di smaltire anche i rifiuti del ricco Occidente.

La nuova campagna governativa per una Cina pulita si chiama Green Fence, recinto verde, e si stima che sotto il suo effetto siano state bloccate 800mila tonnellate di rifiuti “riciclabili” da febbraio scorso. Questo, sommato alle 247 licenze sospese dalle autorità portuali ad aziende che importavano rifiuti, ha causato un certo disordine nei porti.

Fino ad oggi la Cina controllava una larga porzione del mercato. Basti pensare che qui arrivava ogni anno il 70 per cento dei 500 milioni di tonnellate di spazzatura elettronica e dei 12 milioni di tonnellate di plastica di cui il mondo occidentale si disfa. Europa, Giappone, Hong Kong e, soprattutto, Stati Uniti spedivano qui i loro rifiuti e – pagando – si liberavano del peso di uno smaltimento corretto e in linea con i principi base della tutela ambientale.

La decisione del governo cinese di alzare gli standard di sicurezza sui rifiuti importati potrebbe anche essere un modo per invitare il mondo occidentale a riflettere sugli effettivi costi di smaltimento e sull’assenza di una filiera di materiali di seconda mano e di infrastrutture per il riciclo degne di questo nome.

È lo stesso presidente dell’Associazione internazionale per i rifiuti solidi (Iswa) a mettere in luce il fatto che i metodi di riciclo cinesi, spesso portati avanti da piccole aziende o addirittura famiglie con un bassissimo livello di sfruttamento di tecnologie atte all’uso, ha come effetto diretto l’inquinamento di suoli e acque e l’esposizione dei lavoratori a danni per la salute permanenti.

Interi villaggi nel sud-est della Cina sono dedicati alla lavorazione di prodotti singoli, come quelli elettronici. Aziende a conduzione famigliare ricavano dai computer scartati rame e altri metalli, fondendo plastica e veleni alla bella e meglio con il conseguente rilascio di piombo e altre tossine nell’aria.

Dopo trent’anni di crescita a qualsiasi costo con il Green Fence la Cina ha deciso di provare a rendere l’economia più pulita e efficiente. Ma i controlli più rigorosi hanno rallentato le importazioni e fatto crescere i loro costi. I funzionari doganali hanno riscontrato che nella merce inviata c’era fino al 40 per cento spazzatura non riciclabile.

Ma non sappiamo se più controlli sulla spazzatura che arriva in Cina significa semplicemente che quest’ultima troverà un’altra destinazione dove i controlli sono ancora bassi e i costi contenuti. 

[Scritto per Lettera43; foto credits: csmonitor.com]