Una mattina del 1968 la Sapienza accolse Alberto Moravia con un cupo boato. Parole chiare, scandite nello spazio austero e stravolto dell’aula, rimaste incise nel libro degli slogan memorabili nella storia della Contestazione: «Mao sì, Moravia no». Il resto è storia più o meno nota: lo scrittore romano non la prese bene.
Era stato in Cina poco meno di due anni prima, nel momento più caldo della Rivoluzione Culturale Proletaria. Era stato proprio lì, vicino al cuore caldo della più seducente delle sommosse di popolo, a misurare palmo a palmo la Galassia Mao, la stessa che gli studenti della Sapienza adesso gli opponevano. Senza che nessuno lo avesse avvertito, era stato condannato senza appello. Mao sì, Moravia no. Sì alla Rivoluzione Culturale, no all’anemico intellettuale integrato.
Eppure ne La rivoluzione culturale in Cina, ovvero Il Convitato di pietra (uscito da Bompiani nel 1967 e finalmente ripubblicato dallo stesso editore con una ricca introduzione firmata da Luca Clerici) quello pronunciato da Moravia era stato un convinto sì alla parabola del Grande Timoniere. Forte dei suoi trascorsi giovanili – nel 1936 Ermanno Amicucci, all’epoca direttore della «Gazzetta del Popolo», lo imbarcò quale inviato sulla Conte Rosso in direzione di Shanghai -, Moravia tornava in Cina in compagnia di Dacia Maraini, accolto dall’allora vicepresidente del Partito Comunista Cinese, Zhou Enlai, con tutti gli onori dell’ospite di riguardo.
Alcune pagine de La rivoluzione culturale erano già apparse sul «Corriere della Sera» – poco meno della metà dell’edizione finale del volume – mentre il resto sarà farina postuma. In Italia la Cina e le sue molte declinazioni erano già state accolte nel vocabolario contestatario, e intorno alla presunta conoscenza dei fatti cinesi si erano coagulate alcune parole d’ordine, prime formulazioni che diventeranno lessico corrente di un’intera stagione politica.
Mille e un uso del Libretto Rosso di Mao
C’era il Libretto Rosso di Mao, feticcio irrinunciabile, una delle falsificazioni più imponenti nella storia del comunismo mondiale. Rimarrà per sempre un mistero come la lettura di quel santissimo breviario di saggezza rivoluzionaria potesse risultare comprensibile a gran parte dei compagni d’Occidente, ignari del contesto dal quale passi, motti, riflessioni, “parole d’ordine” fossero state estratti. Durante la sua traversata cinese Moravia volle partire proprio da lì, dalle pagine sottili del Vangelo secondo Mao Zedong, «un surrogato della coscienza e al tempo stesso il perno di un sistema di comportamenti rituali». Insomma, una guida pratica alla vita.
Tutto poteva essere ricondotto agli insegnamenti del Grande Timoniere, non esisteva aspetto dell’esistenza che non fosse contemplato dall’enciclopedia maoista. E quando quella lisa copertina rossa diventava l‘unico strumento legittimato per aprire bocca, la situazione assumeva allora toni involontariamente comici: « Si agita per aria ai raduni, alle sfilate, alle riunioni e allora abbiamo l’esaltazione del libro oppure la minaccia e la sfida per mezzo del libro. Lo si apre e vi si fa scorrere lo sguardo e allora abbiamo la consultazione. Lo si legge ad alta voce in risposta a qualcuno e allora abbiamo la citazione, la comunicazione. Lo si accarezza chiuso con la mano e lo si stringe al cuore e allora abbiamo l’affezione. Lo si tiene in mano durante le danze, i canti e le recite di propaganda e allora abbiamo la simbolizzazione… ».
Marx e Confucio
La confucianizzazione di Marx, ecco una delle formule che all’epoca fecero del reportage di Moravia un vademecum innovativo per cogliere in un sola dinamica il presente e il futuro della Cina comunista. La nuova grammatica rivoluzionaria di Mao aveva dimostrato come il marxismo si potesse ridurre a un insieme di norme da mandare a memoria. Lo stesso per più di un millennio era accaduto per il confucianesimo. Legittima diventava quindi l’ipotesi che tra le due dottrine vi fosse un’identità di fondo.
Non a caso, secondo Moravia, in Cina la conversione di massa al comunismo era di tipo “dolce”, una sorta di «operazione religiosa» attuata attraverso il riuso di una strategia di comunicazione millenaria, come quella di riportare a memoria sentenze ed exempla. E così le sfilate delle Guardie Rosse diventavano ai suoi occhi processioni di un culto antico, di ascendenza rustica, così come la dottrina marxista appariva molto simile a una riproposizione aggiornata della pedagogia confuciana.
Le Guardie rosse, fanciulli in crociata
In che cosa consisteva, dunque, l’identità alternativa del giovanissimo esercito delle Guardie Rosse «per Mao contro tutti»? Quei ragazzi, molti dei quali non ancora ventenni, erano per Moravia il vero nucleo di novità, la forza rigeneratrice di una rivoluzione in grado di riflettere lo spirito delle nuove generazioni, desiderose di partecipare in prima persona alla costruzione di una società migliore.
E quali sono i metodi della rieducazione – parola che da questo momento in poi entrerà nel lessico corrente per indicare una pratica politica tutta “cinese” – ideati dalle Guardie Rosse? Moravia ne racconta uno. Protagonista Wang Kuangmei, moglie dell’allora Presidente della Repubblica Liu Shaoqi (è destino che nella storia contemporanea cinese le mogli siano origine e causa della disgrazia dei mariti…), sottoposta a un feroce processo pubblico poiché «ladra numero uno dell’Università di Tsinghua [sic]».
Per attirarla fuori dalle mura della sua abitazione (ancora non era concessa alle Guardie Rosse l’autorità per varcare la soglia della casa del Presidente della Repubblica), alcuni componenti di quell’esercito sequestrarono la figlia di Wang Kuangmei, la quale si trovò costretta a presentarsi pubblicamente davanti alla folla e a sottoporsi così alla manovra rieducativa dell’esercito di Mao.
È il plot di migliaia di vicende identiche che milioni di cittadini cinesi vivranno sulla propria pelle, esempio angoscioso dell’anarchia politica che investì la Repubblica Popolare, e che rafforzò la posizione di Mao nel quadro gerarchico del Partito. Una tragedia che solo oggi, nel Ventunesimo secolo, comincia a contare le proprie vittime.
Da parte sua, Moravia si ritrovava a interrogare i giovani crociati con simpatia, qualificando lo strumento del sequestro e della coercizione ideologica come una manifestazione «infantile». I metodi da Santa Inquisizione venivano così ridotti nella griglia di un discorso il cui rigore ideologico legittimava la soppressione dei fatti concreti: se Mao era una valida alternativa alla degenerazione dello stalinismo – vero bersaglio polemico di tutto il viaggio cinese di Moravia – ciò voleva dire che anche i metodi delle Guardie Rosse erano legittimati da un simile programma di emancipazione politica.
Mao sì, e tanto basta
Il confronto diretto – e indiretto – tra la Cina e l’Unione Sovietica è dunque un motivo costante de La rivoluzione culturale in Cina. È un serrato, ossessivo parallelo quello condotto tra Mao e Stalin, e tra i sistemi politico-sociali di cui questi erano il simbolo. Rileggere a distanza di quasi mezzo secolo le memorie cinesi dello scrittore romano, fa emergere con ancora più evidenza come quest’ultimo avesse guardato alla Cina degli anni della Rivoluzione Culturale secondo una prospettiva regressiva. La “nuova” parabola maoista rappresentava ai suoi occhi, infatti, una forma di ritorno alle origini del discorso marxista.
La povertà – ma sarebbe più corretto dire l’etica della povertà – intesa come tensione verso una condizione natutrale dell’umano essere, la gestione del partito dal basso, la partecipazione collettiva alle vicende politiche, l’iterazione del processo rivoluzionario con il conseguente coinvolgimento delle generazioni più giovani, sono gli elementi che avrebbero fatto della Cina maoista, con i dovuti distinguo, un’utopia realizzata.
A ben leggere, Moravia non esaltava Mao come figura di innovatore. Quelli condivisi non erano gli aspetti, per dire così, eversivi del pensiero di quest’ultimo, bensì quelli che persistevano nel conservare intatto il nucleo semantico più autentico del comunismo rivoluzionario. L’appannamento dello stalinismo, inteso anche come universo di riferimento per quanti ne avevano in passato condiviso le sorti, era aggravato dalla nuova ascesa dell’astro di Mao. Esaurita la parabola del primo, la seconda lunga marcia intrapresa dal popolo cinese con la Rivoluzione Culturale era, al contrario, costellata di speranze per il futuro.
Moravia lo sapeva: le novità politiche non giungevano più dall’Est dell’Europa, ma dall’Estremo Oriente, e di un simile passaggio l’intellettuale d’ispirazione marxista pretendeva di farsi testimone. E lo fece attraverso il suo reportage, uno degli esempi emblematici di come si guardasse alla Repubblica Popolare quale teatro di una rivoluzione galileiana in corso. La Terra, ovvero la sinistra italiana e occidentale, girava intorno al Sole, ovvero a Mao Zedong, che tutti accecava – è proprio il caso di dire – con la sua luce.
*Danilo Soscia è nato a Formia nel 1979. Studioso di letteratura di viaggio, vive e lavora a Pisa. Ha esordito nella narrativa nel 2008 con Condòmino (Manni) e ha curato il volume In Cina. Il Grand Tour degli italiani verso il Centro del Mondo 1904-1999 (Ets). È stato anche redattore del quotidiano Pisanotizie.it.