Da oggi, nella zona speciale di libero scambio di Shanghai – la prima nella Cina continentale – saranno sospese le leggi nazionali. Secondo quanto annunciato venerdì scorso dal Consiglio di Stato, la zona sarà un porto franco dove saranno liberalizzati i flussi di capitali e lo scambio di merci transfrontaliere. Lo scopo è quello di trasformare la metropoli sul fiume Huangpu in uno dei principali centri finanziari del mondo. È un esperimento che ricorda le “zone economiche speciali” create da Deng Xiaoping trent’anni fa e poi prese a modello per tutta la Cina. All’epoca si tentava di introdurre il capitalismo in un paese comunista e si sperimentava la manifattura. Oggi si tratta soprattutto di finanza e tecnologia.
La zona pilota – fortemente voluta dal premier Li Keqiang, che l’aveva addirittura annunciata al Forum di Daos e dalle pagine del Financial Times – è stata ufficialmente inaugurata domenica scorsa, ma né il premier né nessuno degli alti quadri del Comitato permanente del Politburo era presente. Secondo il documento rilasciato dal Consiglio di Stato gli esprimenti nel campo della finanza procederanno “secondo quanto permesso delle condizioni (esterne)” e “il rischio sarà controllato”. Le nuove regole saranno via via applicate nel corso di tre anni, ma ancora non sono chiare le priorità. La mancanza di chiarezza sembra essere indice di una discussione ancora in atto da parte della dirigenza su quanto potere concedere al mercato.
Si sa che finalmente le aziende straniere potranno vendere le consolle dei videogiochi – proibiti in Cina da una decina d’anni – e che le banche cinesi e quelle occidentali stanno facendo a gara per espandersi nell’area. Ma poco altro. Niente si dice a proposito della liberalizzazione di Internet, né si danno tempistiche sulla tanto voluta internazionalizzazione dello yuan.
Dai Hao, presidente del Comitato amministrativo della zona ha dichiarato “Sarà la prima volta (per molte delle politiche che verranno attuate). Siamo come studenti delle elementari”. E il ministro del commercio Gao Hucheng, la più alta autorità presente all’inaugurazione ha spiegato che questo era il frutto di una decisione cruciale presa in una nuova fase di riforme e aperture. “Segue la tendenza degli sviluppi globali dell’economia – ha aggiunto – e riflette una più attiva strategia di apertura”. Il punto più controverso è il fatto che la finanza è più difficile da controllare delle merci, e che il rischio che l’area sfugga di mano e contagi l’intera Cina continentale è fortissimo. Anche per questo le autorità sono molto caute nel rivelare i dettagli.
Il progetto è stato fortemente voluto dalla città di Shanghai, centro finanziario della Cina continentale, preoccupata di rimanere indietro rispetto a Hong Kong e Taipei, entrambe piazze offshore dello yuan. La convertibilità dello yuan – di fatto – è uno degli obiettivi della classe dirigente cinese, che vuole facilitare l’uso della propria valuta nel commercio internazionale. L’internazionalizzazione dello yuan è cominciata nel 2005, quando è entrato in un paniere di monete, tra cui il dollaro. L’obiettivo del governo è quello di arrivare alla piena convertibilità dello yuan entro cinque anni.
I vantaggi di questa politica sono già evidenti: nel 2010 lo yuan era al trentacinquesimo posto tra le valute più utilizzate al mondo; solo due anni dopo era salito al quattordicesimo. E la previsione è quella di raggiungere il terzo posto nei prossimi anni. L’eventualità di una convertibilità dello yuan è un’occasione anche per i Paesi occidentali: da anni Londra sta cercando di diventare la piazza europea di riferimento per la valuta cinese. E intanto Pechino ha già firmato accordi swap con Australia, Giappone, Malaysia, Brasile e Nuova Zelanda. Tutti passi in avanti per portare lo yuan, nei prossimi anni, a diventare un rivale globale del dollaro.
[Scritto per Lettera43; foto credits: business.inquirer.net]