Pechino: 22 milioni di abitanti, di cui almeno 8 lavoratori migranti. Il ciclo perenne di distruzione e ricostruzione. La capitale delle contraddizioni laceranti. Eppure qualcuno fa il percorso inverso. E dalla città si trasferisce in campagna. China Files vi regala un contenuto di Urban Asia, la rivista gratuita per iPad e a 3€ per Kindle.
Nell’autunno 2011 ho cominciato con Claudia Pozzoli a raccontare Pechino con un progetto che si intitola Inside Beijing: ne sono scaturiti un documentario, un webdocumentario interattivo, un’installazione e un reportage. Esattamente un anno dopo, nell’autunno del 2012 e quasi in contemporanea con l’uscita del documentario, il premier cinese Li Keqiang ha lanciato la parola d’ordine della chengzhenhua, l’urbanizzazione “sostenibile” che dovrebbe aprire una nuova fase del boom cinese.
Si tratta dello sviluppo delle città di grandezza medio-piccola (chengzhen) al posto delle metropoli (chengshi, da cui chengshihua, l’urbanizzazione tout court) che sono divenute ipertrofiche nel corso degli ultimi trent’anni, quando il “modello Deng”, la costruzione della Cina come “fabbrica del mondo”, ha spinto milioni di ex contadini ad abbandonare le terre – anche perché spesso espropriati delle stesse – e a riversarsi nelle maggiori città come manodopera a basso costo.
La Pechino che abbiamo raccontato noi è proprio figlia di questa urbanizzazione caotica che l’ha portata a circa 22 milioni di abitanti, di cui almeno 8 sono lavoratori migranti. Ha una sua bellezza eccessiva, nello stesso senso in cui possono essere “belli” una cicatrice, una fabbrica, uno slum, una trincea, un grattacielo-alveare, una spianata di polvere intervallata da un albero, un cavalcavia, tutti mescolati insieme, attraversati da un’umanità densa e avvolti nello smog perenne.
È nata dalla sistematica distruzione-ricostruzione della città che un tempo era l’immutabile capitale imperiale, disegnata secondo precise regole confuciane. La distruzione-ricostruzione è il prodotto delle vicissitudini politico-economiche della Cina contemporanea.
Basti pensare allo smantellamento delle mura antiche voluto da Mao Zedong, allo svuotamento dei vecchi siheyuan – le tradizionali case a corte monofamiliari – per riempirle di mille pingfang (piccole casette a un piano) costruite precariamente da milioni di nuovi abitanti, che rendono il centro di Pechino una delle aree più dense del mondo, quasi una baraccopoli senza i problemi di sicurezza degli altri slum sparsi per il pianeta.
Quando arriva l’estate, gli hutong (vicoli) di Pechino si riempiono di lavori in corso, nell’infinito processo di distruzione-ricostruzione. La colonna sonora è quella del trapano e del maledetto flessibile: l’aggeggio con lama circolare che, secondo noi expat, i cinesi usano anche per lavarsi i denti.
Questa Pechino, esempio della vecchia urbanizzazione, non è più sostenibile. Il nuovo ceto medio che la popola comincia non poterne più della perenne cappa di smog che la avvolge. E l’immagine del venditore di patate dolci o del raccoglitore di bottiglie di plastica di fianco ai quali sfreccia una Lamborghini con al volante il figlio prepotentello di qualche alto funzionario, è un pugno nello stomaco del “sogno cinese” sbandierato dal presidente Xi Jinping, così come lo era già stato per la “società armoniosa” del suo precursore, Hu Jintao.
Sono gli stessi pechinesi della classe popolare a volere una vita diversa. Ce lo spiega Ou Ning, di professione “lavoratore della cultura”, come gli piace autodefinirsi (in realtà è un curatore d’arte, regista, scrittore), quando dice che la maggioranza dei laobaixing (la gente comune) che hanno sempre vissuto nell’hutong, facendo magari per cinquant’anni i propri bisogni nei bagni pubblici, accettano di andarsene verso il sesto anello della metropoli – cioè anche a trenta chilometri di distanza – a patto che il compenso sia adeguato: soldi, un appartamento moderno, magari un trilocale (così due stanze possono subaffittarle), con il bagno privato e l’aria condizionata.
Al loro posto, ci andiamo noi, in centro, l’umanità internazionalizzata che fa di Pechino una delle nuove metropoli globali: cinesi cosmopoliti e alternativi, giovani professionisti europei, occidentali, famiglie miste. Il ceto medio indifferenziato che convive però ancora con la vecchietta ultranovantenne e il friggitore di panini.
Abbiamo detto “ancora”, perché quando in un quartiere arriva l’hipster e si aprono localini alla moda, avviene la cosiddetta gentrificazione: crescono i prezzi immobiliari e il costo della vita, gli abitanti originari sono gradualmente espulsi e il tessuto sociale, ciò che rende unico un luogo, va a farsi benedire.
Oppure ci arriva il modello mainstream, negli hutong, quello promosso dal governo: si radono al suolo i pingfang e si ricostruiscono “in stile” i vecchi siheyuan per riempirli di negozi dei maggiori brand internazionali, mentre i vicoli sono resi pedonali. Vie dello shopping uguali a quelle di ogni grande città del mondo, il modello Disneyland con un pizzico di vocazione tutta cinese al falso d’autore.
È possibile un’alternativa sia alla gentrificazione sia al modello Disneyland? È possibile concepire un modello diverso di sviluppo urbano?
Ci stanno provando a Dashilan, che i pechinesi pronunciano Dashilan’r ed è un quartiere di hutong, tradizionalmente popolare, duecento metri a sud di piazza Tian’anmen.
Il progetto DashiLab è nato dall’unione di uno studio privato, Approach Architecture, e di uno sviluppatore immobiliare di proprietà del governo, Guanggan Holding. Sta cercando di preservare il vecchio quartiere e la sua vitalità umana, traghettandolo però in una modernità sostenibile.
Per farlo, si è scelto di attirare nuove funzioni da fuori che non si sostituiscano, ma si integrino, con l’esistente: studi di design, gallerie d’arte, negozi utili al territorio (cioè non solo rivendite di souvenir tutti uguali), ristoranti e locande di livello e target diverso.
Questa complessità dovrebbe garantire una maggior qualità della vita a chi già vive nel quartiere – e quindi la sua permanenza – e un rilancio di tutta l’area. È l’alternativa alla monocoltura – il quartiere “turistico” piuttosto che quello di uffici – ma è un ecosistema delicato, a rischio di alterazione se qualcuno non sovrintende al suo mantenimento.
L’architetto Liang Jinyu, che fino a poco tempo fa coordinava il progetto, spiega quindi che il suo ruolo non è più “progettare & costruire”, bensì un’opera da “curatore urbano”: colui che prima di tutto ascolta le esigenze della gente di Dashilan e poi cerca di darvi una configurazione spaziale. In questo quadro, anche il ruolo del governo locale è importantissimo, ma discreto: si tratta di assegnare i lotti, creare lo spazio pubblico per favorire la discussione tra i residenti, costruire le infrastrutture minime, mantenere accettabili i prezzi degli affitti attraverso un effetto calmiere svolto dalla propria agenzia immobiliare.
Laddove la diversa urbanizzazione non arriva, c’è sempre la controurbanizzazione, cioè il movimento inverso a quello che ha prodotto la megalopoli ingovernabile. È la scelta di Ou Ning, che alla città ha detto basta. Se ne è quindi andato da Pechino per fondare la “comune di Bishan”, un esperimento di incontro tra civiltà contadina e intellettuali che “tornano alle origini”, nelle campagne della provincia meridionale dell’Anhui.
Anche qui, contro la monocoltura del turismo corredato da speculazione immobiliare – che crea villette a schiera perlopiù vuote e deturpa i luoghi – si propone un modello più complesso. Sulle locali “quattro colture” tradizionali – riso, baco da seta, colza, tè pregiato – non più sufficienti per le esigenze del contadino globalizzato, si cerca di innestare un turismo intelligente, basato sul recupero delle case e dei templi di famiglia degli antichi mercanti hui. Qualcosa di molto simile ai nostri agriturismi e alla cultura dello slow food.
Tutto molto lapalissiamo e anche un po’ inflazionato per chi viene dall’Italia, ma assolutamente in controtendenza nella Cina delle colate di cemento e delle architetture rifatte “in stile” come pura facciata. Il ruolo di chi torna alla terra dalla città è in questo esperimento fondamentale: è lui che investe nel recupero architettonico, entra in contatto con i contadini, valorizza le loro competenze, cerca di creare nuovi mercati sostenibili, veicolando verso il nuovo ceto medio urbano i prodotti dell’artigianato o dell’agricoltura biologica.
È curioso osservare come in entrambe le alternative – l’urbanizzazione diversa e la controurbanizzazione – si chieda al governo una “non presenza attiva”, che ricorda il wu wei del taoismo. Le autorità non devono imporre un modello, ma favorire la discussione nella comunità, creare lo spazio pubblico, diventare un mediatore e, se mai, intervenire con l’infrastruttura giusta al momento giusto: l’illuminazione per il villaggio, la fognatura per l’hutong e così via.
Questo moderno wu wei è l’esatto contrario del modello capitalista, che vuole ridurre il ruolo del governo, sì, ma per lasciare invece spazio alle “libere” forze del mercato. Il che dà luogo a gentrificazione del territorio e sfruttamento di persone e risorse, monocoltura e fine della biodiversità. In questo caso, che poi è il modello mainstream, il governo rientra dalla finestra quando si tratta di tutelare l’ordine pubblico: reprimere il contadino espropriato dai terreni o il cittadino a cui hanno demolito la casa per farci il centro commerciale.
La chengzhenhua va più in direzione del modello mainstream o delle sue alternative sostenibili? Ancora è presto per dirlo, ma non c’è spazio per l’ottimismo a buon mercato: troppi sono gli interessi in gioco e troppi i rivoli in cui si divide il potere. Ciò che succede nella lontana provincia non sempre è sotto gli occhi di Pechino e il modello di sviluppo urbano legato alla speculazione immobiliare è pervasivo, riempie i forzieri delle amministrazioni e le tasche dei funzionari.
Ogni alternativa deve saper competere, dimostrare di essere redditizia nel più breve tempo possibile. Ma il fatto che a Pechino parlino di una crescita più lenta e qualitativa, che il potere cinese coltivi un modello mainstream ma al tempo stesso lasci spazio a laboratori in cui si sperimenta tutt’altro, è un buon, piccolo segno. Un’altra Cina è possibile.