Le radici altrove (17,00 €) è l’esordio di una giovane scrittrice di origini indiane: Shubnum Khan. Un confronto fra tre generazioni di donne che affrontano le difficoltà della vita quotidiana in Sudafrica, ciascuna cercando, coltivando e, a volte, rifiutando le proprie radici indiane. China Files ve ne regala un estratto (per gentile concessione della casa editrice Nova Delphi). Khadeejah Bibi Ballim odiava lo sporco.
Odiava che la saliera non fosse al suo posto sopra i fornelli. Odiava che gli ospiti lasciassero impronte sui vetri della sua credenza. Odiava che i chicchi di riso cadessero sul tappeto. Ma soprattutto, Khadeejah detestava vedere unghie lunghe sulle mani di una donna. Non riusciva a concepire come una donna potesse sopportare di lasciarsi crescere le unghie fino a trasformarle in potenziali ricettacoli di sporco. Giudicava tutte le donne in base alla lunghezza delle loro unghie; se erano abbastanza lunghe da scalfire una mela, allora la donna non era degna di rispetto.
Khadeejah, però, non si riteneva una donna ossessionata dalla pulizia. Riteneva fosse abbastanza normale spolverare le mensole una volta al giorno, sbrinare il frigo una volta alla settimana e rifornire la dispensa una volta al mese. O magari anche due volte al mese, tanto per sicurezza.
Oggi era un giorno come tutti gli altri. Strofinò la cornice d’argento che circondava la foto sbiadita del suo matrimonio. Lei aveva indossato un lungo vestito bianco che le faceva prudere le cosce, lui un completo grigio con un garofano rosso all’occhiello, simile a una ferita d’arma da fuoco. Lui aveva sul viso un’espressione divertita, un sorrisetto malizioso che lo faceva apparire quasi bello. Quasi. Lei,invece, era pallida. Tesa. Aveva le labbra troppo contratte e il volto troppo magro. Qualcuno le aveva messo troppo trucco sulle guance. Khadeejah si riconosceva a malapena.
Poi lucidò le cornici che contenevano le foto di sua figlia e di suo figlio. Una per ciascuno. Sorrisi da cartolina, capelli impomatati e lo sfondo blu di uno studio fotografico. Successivamente Khadeejah passò lo straccio sulla sua collezione di sali da bagno e di statuine di cioccolato avvolte nel cellofan, recanti le parole “Grazie per aver condiviso questo lieto giorno con noi”. Infine spolverò il modellino del Teatro dell’Opera di Sidney che le era stato inviato da suo figlio. Ogni volta che lo puliva, il cuore le doleva mentre immaginava suo figlio seduto da qualche parte Laggiù in Australia, a trascinare la punta delle scarpe nella polvere, affamato, triste e con quella buona a nulla di sua moglie come unica compagnia.
Dopo che ebbe eliminato con cura ogni granello di polvere superstite (anche se per lo più immaginario) tra le fessure del modellino, iniziò a impacchettare il suo achar in secchielli di plastica. Aveva ancora i pollici ruvidi per aver tagliato i manghi acerbi, proprio quella mattina. Erano manghi stranamente duri, per questo periodo dell’anno. Di solito li comprava da Mahomedy, giù all’angolo, ma l’ortolano che andava di porta in porta col suo camioncino sgangherato tutti i giovedì le aveva fatto un buon prezzo per un chilo di manghi acerbi. Si era tolto il consunto cappello da pescatore, si era strofinato la faccia sudata con un fazzoletto, le aveva sorriso con i suoi denti anneriti e aveva giurato che le stava offrendo “il meglio del meglio”. E al miglior prezzo, per di più. Ora Khadeejah capiva perché: erano troppo duri da tagliare, e questo probabilmente significava che erano amari.
Sistemò con attenzione l’achar dentro secchielli da ghee vuoti e li avvolse uno per uno con nastro adesivo da pacchi affinché l’olio non colasse fuori. Una volta era capitato che il secchiello della signora Salejee aveva fatto gocciolare olio sui tappetini della sua Mercedes. La signora Salejee se l’era presa con Khadeejah, le aveva lasciato il secchiello sporco sulla porta e non si era mai più fatta vedere.
A Khadeejah non piaceva sentirsi definire “irresponsabile” e “poco professionale” in un lavoro in cui aveva investito tanti sforzi. Così avvolgeva con cura strato dopo strato il nastro marrone da pacchi intorno ai coperchi, riparando inconsciamente il suo orgoglio ferito con ogni giro di nastro. Scarabocchiò “Hafeeza” nella sua calligrafia minuta e spigolosa su un’etichetta desiva e l’appiccicò sul coperchio. Hafeeza era una buona cliente. Suo marito aveva un debole per il rai achar, il che assicurava a Khadeejah un’entrata regolare. Alla fine di ogni mese arrivava puntuale una telefonata di Hafeeza, a informare gentilmente Khadeejah che stava venendo a ritirare il suo rai achar.
“E non dimenticare di metterci un bel po’ di spicchi d’aglio. Baboo li adora!” aggiungeva sempre. A volte Khadeejah si domandava se stesse facendo la cosa giusta. L’olio era un ingrediente importante nell’achar, e Baboo era già stato operato al cuore almeno una volta. Ad Hafeeza non passava mai per la testa l’idea che stava lentamente avvelenando suo marito? Non capiva che stava permettendo all’olio di arrivargli nelle arterie e di depositarsi lì, uno strato di grasso dopo l’altro, impedendo al sangue di fluire libero? E, se le cose stavano così, non era forse Khadeejah l’artefice del veleno?
No, non poteva essere lei la responsabile. La colpa era di Hafeeza, che lo comprava da lei. La colpa era di Hafeeza, non sua. Khadeejah era sempre stata una gran lavoratrice. Si era abituata a lavorare duro sin da quando aveva capito che otto fratelli più piccoli non potevano contare solo sulla loro madre.
La sua famiglia era vissuta in un affollato condominio di Bronkhorstspruit, una cittadina rurale boera appena fuori Pretoria. Abdur-Rahim Mirza e la moglie quindicenne erano arrivati in nave dall’India e lui aveva deciso di mettere su casa a Bronkhorstspruit. Nessuno seppe mai di preciso perché avesse scelto proprio quel posto. Magari era seduto con sua moglie tra le casse polverose sul molo, con una vecchia mappa del Sud Africa in grembo quando, dopo un attimo di pausa per sorseggiare del chai da un bicchiere di plastica, aveva improvvi samente puntato il dito sulla mappa ed esclamato: “Ecco qui, mia jaan! Ecco dove costruiremo nostra casa”.
E così, dopo aver spostato il dito e aver studiato la lunga parola BRONKHORSTSPRUIT, i due avevano preso cavallo e carretto ed erano trottati via in cerca di quell’arida cittadina. E la giovane moglie, ormai avvezza alle eccentricità del consorte (sin da quando un bel giorno, in India, aveva annunciato che voleva vedere la “grande Africa”), aveva scrollato le spalle e accettato di vivere in un luogo di cui non sapeva pronunciare il nome.
O magari suo padre se ne stava seduto con sua moglie sulla nave beccheggiante, quando si era imbattuto in altri quattro indiani che l’avevano invitato a seguirli nella cittadina rurale dove poteva aiutarli ad aprire un negozio. “Dopotutto, gente sempre bisogna comprare roba, no? E noi indiani bisogna rimanere uniti.” E poi, forse, uno di loro aveva afferrato la mano di Abdur-Rahim e aveva ripetuto: “Bisogna rimanere uniti, se no rimaniamo soli.” Quest’ultima parola pronunciata in un sussurro solenne e accompagnata da un lieve cenno della testa.
Comunque fossero andate le cose, Abdur-Rahim Mirza era finito a Bronkhorstspruit e, in un batter d’occhio, aveva messo su casa nel continente africano, in una cittadina afrikaner. Se l’era cavata piuttosto bene. Aveva aperto una bottega che vendeva di tutto, dalle pentole alle candele, dalle radio alle mutande di pizzo. Nel suo negozio entravano sia bianchi che neri, anche se da ingressi differenti.
*Giovane autrice sudafricana di origini indiane e di religione musulmana, Shubnum Khan insegna Inglese e Media Studies all’UZKN di Durban. A questa attività affianca quella di giornalista freelance e vignettista politica. Le radici altrove è il suo romanzo d’esordio.